Dieci anni sono trascorsi da quel terribile 6 aprile 2009 quando a L’Aquila 309 persone persero la vita sotto le macerie. Ma gli strascichi del terremoto potrebbero protrarsi ancora a lungo. E non solo per una ricostruzione che, dopo dieci anni, ancora stenta a chiudersi. Ma anche perché tra quelle macerie c’era amianto. Centinaia di migliaia di metri cubi rimasti imprigionati tra polvere, ferro e cemento, nel centro storico del capoluogo abruzzese e nei tanti paesi di tutta l’area colpita.
Già anni fa, d’altronde, l’Osservatorio Nazionale Amianto (Ona) aveva sollevato il problema: «In Abruzzo manca completamente un piano di bonifica», dichiarava nel 2015 il presidente dell’Ona, Ezio Bonanni. Secondo uno studio, prodotto dallo stesso Osservatorio, il terremoto avrebbe prodotto circa 2,6 milioni di metri cubi di macerie, di cui un milione e mezzo (il 75%) nel solo comune dell’Aquila. Ebbene, secondo l’Ona il 20% dei siti interessati da crolli potrebbe aver contenuto amianto. È sempre l’Osservatorio, d’altronde, a parlare di una stima di più di 46mila metri quadri di cemento amianto nelle coperture, oltre a quello contenuto all’interno delle singole strutture.
Una stima, questa, che vede d’accordo anche uno dei primi ricercatori che, dopo il terremoto, ha denunciato il rischio dell’esposizione all’amianto, l’allergologo e professore universitario a Chieti, Mario Di Gioacchino. «Alcuni effetti dell’esposizione all’amianto – spiega il professore – sono immediati e sono quelli relativi all’inalazione di polveri. Poi ci sono gli effetti cancerogeni dell’amianto, che hanno una latenza lunghissima che può arrivare anche a 30 anni: se qualcuno è stato esposto a una quantità elevata di asbesto è a rischio, soprattutto se si tratta di fumatori». E il rischio non è così secondario considerando che «A L’Aquila, come in altri centri storici italiani per anni si è utilizzato l’eternit perché leggero, resistente, termoisolante ed economico. Quindi se io dovevo rifare in centro storico la mia casa la cui muratura non era molto resistente, utilizzavo quasi certamente l’eternit». Un usus diffuso, almeno fino al 1992 quando è stata approvata, come si sa, la legge relativa alla «cessazione dell’impiego dell’amianto» per i suoi devastanti effetti cancerogeni. E sono proprio questi effetti che impensieriscono, oggi, cittadini e ricercatori. «Non so quanto tempo quelle macerie siano rimaste esposte, ma potenzialmente il rischio per le persone c’è. Quel che è certo è che inizialmente c’era una quantità elevata di manufatti frammentati contenenti amianto. Spero, poi, che sia stato fatto un piano e, dunque, che il materiale tossico sia stato prontamente rimosso».
Non c’è stato alcun piano specifico per la rimozione immediata di quel materiale che è rimasto lì per molti anni. E i lavori vanno a rilento
Stessa preoccupazione anche oggi è espressa dall’Ona: L’Osservatorio – spiega Bonanni – fin dall’immediatezza del tragico terremoto che ha sconvolto L’Aquila e le città limitrofe, ha segnalato la condizione di rischio amianto, legato all’utilizzo del minerale, specialmente in edilizia. Per questi motivi abbiamo segnalato questa condizione di rischio e anche l’entità, presunta, dei materiali di amianto o contenenti amianto». Purtroppo, però, «nell’immediatezza e anche nei periodi successivi, vi è stata una parziale sottovalutazione della condizione di rischio». Anche analizzando i dati forniti dall’Ufficio speciale per la ricostruzione dell’Aquila, d’altronde, l’intervento non pare essere stato così immediato. Ancora oggi, d’altronde, vengono portate via macerie. Solo nel mese di aprile risultano essere state rimosse 233 tonnellate di macerie dalle strutture pubbliche (29 nella giornata di ieri), per un totale da inizio 2019 – a dieci anni dal terremoto – di 63.637 tonnellate (da inizio sisma 357.805 tonnellate). E poi, ovviamente, ci sono le strutture private. In questo caso i numeri sono ancora più elevati: nel 2019 sono state rimosse 78.177 tonnellate di macerie (2.198 nei primi 4 giorni di aprile) per un totale, da quel lontano 2009, di più di 3 milioni di tonnellate. Linkiesta ha chiesto all’Ufficio ricostruzione se è possibile che tra queste macerie ci sia anche materiale pericoloso, ma non ci è giunta risposta.
Un’idea, però, possiamo averla analizzando i dati relativi, nel dettaglio, al materiale rimosso dai cantieri. Per quanto riguarda, ad esempio, i «materiali da costruzione contenenti amianto» risulta che sono stati rimossi dal 2012 al 2017 (e, dunque, a distanza di anni dall’evento sismico) 263 tonnellate dalle strutture pubbliche, 815 da quelle private. Ci sono, poi, «materiali isolanti e materiali da costruzione contenenti amianto»: 403 tonnellate rimosse nello stesso arco di tempo. Accanto all’amianto ci sono anche i «rifiuti dell’attività di costruzione e demolizione, contenenti mercurio»: in questo caso dal 2012 al 2017 sono state portate via 4.177 tonnellate dai cantieri privati e 532 da quelli pubblici. E poi, ancora, ci sono i «rifiuti metallici contaminati da sostanze pericolose»: in totale parliamo di 715 tonnellate.Senza dimenticare, ancora, le decine e decine di tonnellate di vetro, plastica, cemento o altro materiale contaminato da «sostanze pericolose» e le apparecchiature elettriche fuori uso contenenti anche queste altro materiale nocivo (rimosse, in questo caso, 35 tonnellate).
Purtroppo in merito ai materiali portati via i dati si fermano al 2017 e, dunque, non è dato sapere se anche negli ultimi due anni sia stato rimosso altro materiale nocivo. «A nostro modo di vedere – chiarisce ancora l’avvocato Bonanni – si sarebbe dovuto applicare con più efficacia, il principio di precauzione. E cioè dotare coloro che si sono occupati della sicurezza e successivamente dello sgombero delle macerie, di maschere con il grado di protezione P3 (protezione alta contro polveri sottili e particelle solide, ndr); irrorare le macerie di liquido aggrappante, in grado di bloccare il rilascio di fibre di amianto e poi, con dei getti d’acqua, e la copertura con del nylon». E, ancora, si sarebbero dovuti eseguire «lavori di rimozione delle macerie con dei mezzi meccanici il cui unico operatore sarebbe dovuto essere stato collocato all’interno di una cabina. Con questo sistema si sarebbe abbattuta e quasi annullata la aerodispersione di polveri e fibre di amianto, e soprattutto, anche gli operatori avrebbero totalmente evitato di inalare fibre».