Tra i caratteri che connotano la nostra epoca ve n’è uno che più di altri balza agli occhi: il desiderio spasmodico di distinguersi, di apparire originali, anche a costo di spingersi talmente in là da negare l’evidenza e capovolgere la verità. Ma non è sgomitando e strillando assurdità che si diventa punti di riferimento per gli altri, dei maître à penser. Influencer forse sì, ma è tutt’altra cosa. Ecco dunque che Filippo La Porta, critico letterario e saggista tra i più autorevoli e raffinati, nel suo ultimo lavoro intitolato Disorganici. Maestri involontari del Novecento (Edizioni di storia e letteratura) propone una personale galleria di maestri del pensiero che hanno significato qualcosa per lui e per la nostra epoca; una quarantina di figure di intellettuali accomunati dal fatto di essere stati “controcorrente senza averlo voluto, senza avercercato ossessivamente di esserlo” e privi della “smania di distinguersi che caratterizza il nostro tempo”.
Si diventa “maestri” perché si vuole capire e non prevalere; perché si va in cerca della verità, qualunque essa sia, piuttosto che del sensazionalismo, della corona di alloro. E tuttavia: a cosa serve un maestro oggi? Ne abbiamo ancora bisogno? Non ne abbiamo già conosciuti fin troppi che hanno combinato disastri? Attenzione, dunque: i maestri vanno ascoltati, ma tenendo vivo lo spirito critico, conservando la propria indipendenza di giudizio. Spesso è ascoltando la loro voce che ci è possibile trovare risposte, comprendere “il nostro presente, per smascherarne gli inganni e conservare una «decenza morale»”, soprattutto “a uso delle nuove generazioni”. Maestri disorganici dunque, osserva La Porta, nell’accezione di Carlo Bo; ossia: «maestri senza autorità costituita, maestri non consacrati».