Oceano mareGli oceani sono il polmone del mondo (e noi li stiamo uccidendo)

Dà da mangiare e da vivere a miliardi di persone, eppure lo trattiamo da sempre come un pozzo a cui attingere infinitamente e una discarica a cielo aperto. Così l’oceano ha iniziato a ribellarsi. E noi dobbiamo a tutti i costi fermare la catastrofe

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Il nostro pianeta è coperto d’acqua per più del 70%, e il 95% di questa è salata. Nell’oceano abita l’80% delle specie viventi. È l’habitat più esteso del nostro pianeta, produce il 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbe il 30% dell’anidride carbonica. Le sue correnti distribuiscono il calore del sole fra i tropici e i poli, regolando il clima dell’intero pianeta. Se fosse una nazione, sarebbe la settima economia del mondo. Ed è anche il nostro più grande alleato nella lotta ai cambiamenti climatici: dall’inizio dell’era industriale, l’oceano ha assorbito il 93% dei gas serra, circa 525 miliardi di tonnellate di Co2, più o meno 22 milioni di tonnellate al giorno. L’oceano svolge un servizio incredibile per l’umanità intera. Se non fosse per lui, la temperatura dell’aria che respiriamo oggi sarebbe di ben 36 gradi superiore rispetto ai livelli preindustriali. Chi sopravvivrebbe in un mondo così?

Eppure, quando si tratta di cambiamenti climatici, fino a pochissimo tempo fa l’oceano non veniva praticamente mai nominato. È solo dalla conferenza di Parigi del 2015 che l’abbiamo preso in considerazione. «Un errore gravissimo» a detta di Mariasole Bianco, biologa marina esperta di conservazione ambientale e divulgatrice scientifica.

La realtà, in tutto ciò, è che di questa enorme massa blu sappiamo molto poco. Non solo come cittadini ignoriamo, di fatto, l’enorme ruolo che l’oceano gioca nelle nostre vite. Ad oggi ne abbiamo esplorato meno del 10%: «abbiamo mappe più precise di Marte e della Luna che delle profondità marine», spiega Bianco. Finora abbiamo contato oltre 250mila specie di organismi marini, ma considerando che ne scopriamo 1500 di nuove ogni anno, un’enorme parte di esso ci rimane ancora sconosciuta.

Volenti o nolenti, ciò significa anche che, per una certa misura, non abbiamo idea dei danni che stiamo provocando. Quel che sappiamo è questo: la temperatura dell’oceano si sta alzando pericolosamente e fino a 2000 metri di profondità, una cosa inaudita. Il 2018 è l’anno che ha segnato la temperatura più alta di sempre, con un aumento di circa un decimo di grado rispetto alla media sul lungo periodo: così, il rischio è che il livello del mare possa alzarsi fino a 3 millimetri ogni anno. Con tutte le conseguenze che conosciamo.

«Gli oceani sono la vittima più importante delle attività umane e anche – di gran lunga – la più trascurata»

Ma non solo. Il cambiamento climatico ha provocato anche l’intensificazione dei fenomeni meteorologici più gravi, come bombe d’acqua, alluvioni, cicloni e anche siccità, in termini sia di potenza che di frequenza. «Se prima i cicloni si presentavano ogni 10 anni, oggi ne vediamo uno all’anno», spiega Bianco. In più, la continua immissione di anidride carbonica ha provocato un’acidificazione dell’oceano del 30% in più negli ultimi 200 anni, qualcosa che non sta dando alle creature marine il tempo di adattarsi ai mutamenti chimici. In men che non si dica avviene il coral bleaching, lo sbiancamento dei coralli: negli ultimi cinquant’anni è già scomparso un numero incalcolabile delle barriere coralline del mondo, che ospitano il 25% della diversità marina. Se continuiamo in questo modo, presto l’acidità degli oceani supererà il 180% rispetto ai valori preindustriali: «Con una simile acidità i coralli si dissolveranno in sei mesi», dice Bianco. Senza contare la più grande distruzione ambientale in corso sul pianeta: la pesca. Secondo gli esperti, metà delle popolazioni dei pesci di interesse commerciale è sfruttata completamente e un altro terzo è troppo sfruttato o in declino, e il collasso completo della pesca commerciale è previsto entro il 2050. Ma il 2050 è una data significativa anche per un altro motivo: per quell’anno, ci dicono gli studiosi, gli oceani conterranno più plastica che pesce, in termini di peso. Ogni anno 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono in mare, l’equivalente di un intero camion al minuto. E il capodoglio ritrovato spiaggiato pochi giorni fa sulle coste della Sardegna, la pancia piena di plastica a chili, è solo l’ennesima vittima di una devastazione che affligge la fauna marina ovunque nel mondo.

«Gli oceani sono la vittima più importante delle attività umane e anche – di gran lunga – la più trascurata»: è la scienza stessa a dirlo, e in particolare l’oceanografo Sandro Carniel nel libro Oceani. Il futuro scritto nell’acqua (da cui abbiamo tratto molti dei dati finora citati). Un libro che ci dice che dal destino dei nostri mari dipende il nostro. Se pensavate che uccidere l’oceano fosse impossibile, ecco, dovrete ricredervi: si può eccome. E con lui ci stiamo condannando all’estinzione da soli. La verità? In fondo la sappiamo: questo pianeta starebbe meglio senza di noi.

Ma se l’uomo è la sfortuna peggiore che potesse capitare all’oceano, è anche l’unico che può portare la soluzione: «abbiamo gli strumenti e abbiamo le tecnologie», dice Bianco. Una soluzione su tutte? La creazione di aree marine protette, che funzionano un po’ come i parchi nazionali. In sostanza, «le acque marine vengono divise in zone e gli usi vengono regolamentati per dare modo alla biodiversità marina di rinascere e ristabilire l’equilibrio perso». I risultati sono sbalorditivi: il numero di pesci aumenta del 166%, aumenta la biodiversità, e i benefici non si limitano solo alla questione ambientale, ma diventano un volano di crescita economica per le popolazioni locali: «per ogni euro che un governo investe nella creazione di un’area marina protetta, il mare è in grado di generarne 92 di ritorno per la comunità», specifica l’esperta. Basti dire che il valore dell’economia degli oceani (la cosiddetta blue economy) è stimato tra 2,5 e 3 triliardi di dollari, pari al 4%-5% del Pil dell’intero pianeta.

L’alternativa, se continuiamo a voler uccidere il nostro polmone blu, la conosciamo: i cambiamenti che stiamo provocando sono inevitabilmente associati a grandi estinzioni di massa. E noi siamo in cima alla lista.

Insomma, abbiamo tutto davanti agli occhi: le prospettive, gli incentivi, i vantaggi. Ma quello che ci manca è «la forza di volontà per metterli in atto». Per questo Bianco ha fondato Worldrise, un’associazione no profit che crea e promuove progetti per la tutela dell’ambiente marino. La onlus si occupa di aree marine protette, di pesca sostenibile, educazione ambientale, turismo responsabile, percorsi di sensibilizzazione all’interno delle scuole sui temi ambientali. Ma l’aspetto più innovativo è che lo fa coinvolgendo giovani, studenti e neolaureati in iniziative che diventano anche un volano di crescita professionale: «sono loro la futura generazione di custodi e testimoni del patrimonio naturalistico».

Il successo del lavoro avviato con Worldrise è tangibile, ma la sfida più grande si trova nell’acquisizione di consapevolezza da parte di tutti, individui, aziende, governi. Fortunatamente, Bianco non è la sola. Di raccogliere e diffondere informazioni, buone pratiche e di coinvolgere il più possibile la cittadinanza si occupa anche la One Ocean Foundation, l’organismo fondato dallo Yacht Club Costa Smeralda per stimolare la conoscenza di ciò che ciascuno può fare ogni giorno per contribuire al benessere del mare. Il fulcro di questa attività è la Charta Smeralda, una dichiarazione di impegno in dieci punti che tutti possono firmare e contribuire a diffondere, dal riuso e riciclo alla riduzione dei consumi, dall’acquisizione di comportamenti etici e responsabili alla contaminazione tramite buoni esempi. Ma l’attività si sostanzia anche in iniziative legate all’arte, allo sport (la barca a vela, naturalmente) e all’utilizzo di ambassador di rilievo. «Se non agiamo insieme, il nostro impatto non cambierà nulla», dice a Linkiesta Jan Pachner, segretario generale di Yacht Club Costa Smeralda e One Ocean Foundation. Per questo tramite la fondazione l’obiettivo è di coinvolgere attivamente anche gli attori del mondo privato: «L’industria è molto più veloce delle leggi e dei governi. Cerchiamo di fare la nostra parte prima che arrivino le leggi ad obbligarci». E per questo dall’organizzazione è partita anche la call to action per ripulire il Po, le cui secche hanno recentemente svelato una montagna di plastica sul suo fondo. Plastica che, se non raccolta, è destinata a raggiungere il mare.

Non è (ancora) troppo tardi per dare il via ad un cambiamento vero, responsabile e all’insegna della sostenibilità. L’alternativa, se continuiamo a voler uccidere il nostro polmone blu, ormai l’abbiamo capita: i cambiamenti che stiamo provocando sono inevitabilmente associati a grandi estinzioni di massa. Nel prossimo decennio si gioca il destino dei prossimi diecimila: se non sapremo cambiare le carte in tavola, siamo noi quelli in cima alla lista. Ecco, il succo è tutto lì: se saremo così stupidi da continuare a non muovere un dito, allora ce la possiamo pure augurare, l’estinzione.

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