Quando nella notte di una domenica di esattamente 30 anni fa, il 30 aprile 1989, all’incirca alle 1 e 45, il cuore di Sergio Leone smise all’improvviso di battere, il cinema italiano perse in un sol colpo il più innovativo, il più radicale e il più eretico dei suoi registi, ma anche il più moderno e totale, quello che più ha avuto impatto sull’immaginario cinematografico mondiale. Da Clint Eastwood a Quentin Tarantino, da Steven Spielberg a Francis Ford Coppola, da John Ford a Martin Scorsese, per non parlare dei tanti attori a cui aveva cambiato la vita, da Robert De Niro a James Coburn, finanche a un perfezionista assoluto come Henry Fonda, che dopo aver lavorato in C’era una volta il West si innamorò dei metodi dell’italiano.
La mattina del 1 maggio del 1989, tutti loro si svegliarono orfani di qualcosa di molto raro, qualcosa che lui aveva e che avevano in pochi altri: la capacità straordinaria di far collidere e di far esplodere tre elementi che per altri sono sempre stati contraddittori: la perfezione formale ereditata dalla pittura, la ricerca del dettaglio iper realista che ha il sapore quasi del documentario e la più assoluta, crassa e goduriosa strafottenza di fronte alle gabbie e alle regole dei generi.
Eretico, per questo, ma anche rivoluzionario. Non a caso i suoi film, quanto meno prima che fosse evidente e innegabile la sua grandezza, fecero a pugni con il gusto altezzoso della critica cinematografica, che infatti lo stroncò e lo attaccò con cattiveria, ribadendo quell’abitudine mai persa di una parte della critica a non capire perfettamente che cos’è il cinema e a che cosa serva. Ma per fortuna sua il pubblico lo adorava. Il successo dei suoi film, persino quando uscivano sotto lo pseudonimo di Bob Robertson come Per un pugno di dollari, fu travolgente. E lui in questo cortocircuito ci sguazzava felice come un bambino in una pozzanghera.
Autore di sole sette pellicole, talmente onesto verso il pubblico e verso se stesso da essere capace di prendersi silenzi artistici lunghi un decennio, Sergio Leone ha ribaltato il destino del cinema mondiale
Autore di sole sette pellicole, talmente onesto verso il pubblico e verso se stesso da essere capace di prendersi silenzi artistici lunghi un decennio, di dire dei No che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dire, di mettere in riga attoroni hollywodiani pieni di sé e di dare fiducia ad altri che invece venivano emarginati dal mainstream, Sergio Leone ha ribaltato il destino del cinema mondiale contemporaneo come probabilmente nessun altro ha saputo fare.
Con le sue due indimenticabili trilogie, quella del Dollaro e quella del Tempo, ha dimostrato che cosa significa fare il cinema per davvero, senza indugiare mai sul proprio ombelico e sul proprio ego e senza rimanere incastrato sotto il peso di regole formali che piacevano solo ai critici o ai suoi colleghi onanisti innamorati del proprio ombelico.
Leone era un pessimista, non lo ha mai nascosto, ma non per questo si ripiegava in pose esistenzialiste, ma ribaltava quel suo pessimismo in un anarchismo vitale. «Sono un socialista talmente deluso», disse una volta al suo amico Noël Simsolo in una delle bellissime conversazioni racchiuse in C’era una volta il cinema (Il Saggiatore), «da essere diventato anarchico. Ma siccome ho una coscienza, però, sono un anarchico moderato e non lancio bombe». E aggiunse: «La mia natura è pessimista. Con John Ford, si guarda alla finestra con speranza; io mostro qualcuno che ha paura di aprire la porta. E se lo fa, si becca una pallottola in fronte».
Ci restano i suoi personaggi mai monolitici ma sempre oscillanti tra stature altissime e abissi di mediocrità
Nei coccodrilli scritti in fretta e furia la notte della sua morte, qualcuno ricorda come il suo atteggiamento fosse stato ogni tanto irritato verso quel mondo del cinema che in quanto arte amava alla follia, ma che forse in quanto establishment gli dava a noia. Sempre in una di quelle geniali conversazioni con Simsolo, possiamo leggere un’altra dichiarazione di poetica che non lascia spazio a riletture: «Non me ne frega nulla. Non cambierò mai il mio modo di fare cinema per compiacere la critica. Conosco alcuni registi ossessionati dal giudizio di certe riviste di cinema. Si dimenticano di fare quello che sentono così come si dimenticano del pubblico. È triste. Finiscono per perdere originalità e autenticità».
Originale e autentico, due doti che in un mondo finto e perennemente in posa come quello del cinema sono spesso guardate di sottecchi: «Nell’ambiente cinematografico, l’amicizia raramente è sincera», disse un’altra volta, precisando: «Sono gentile con i cortigiani, è più sprezzante che mandarli a quel paese». Ed è anche in questo suo sprezzo verso le pose, le regole e le cricche che Sergio Leone all’Italia manca tantissimo.
Ci manca in quella sua capacità assoluta di essere fedele a se stesso, di non voltar mai faccia alla propria libertà, di sapere dire No e di sapersi prendere il tempo che serve per partorire i veri capolavori. Sergio Leone ci manca come ci mancano i grandi maestri, quelli che non ammiccano a nessuno, quelli che conquistano con la potenza della propria voce e del proprio stile e che, in confronto ai tanti nanerottoli che occupano le sale di oggi, sono colossi.
Al di là della nostalgia, a trent’anni dalla sua morte, di Sergio Leone ci resta tutta la ricchezza e l’umanità che è riuscito a trasferire nei suoi film. Ci resta il suo radicalismo schietto, forse un po’ goffo ogni tanto, ma ai massimi livelli di sincerità. Ci restano i suoi personaggi mai monolitici ma sempre oscillanti tra stature altissime e abissi di mediocrità.
Ci restano scene memorabili come il triello de Il Buono il Brutto il Cattivo, disturbanti come lo stupro di Deborah in macchina da parte di Noodles o discorsi memorabili come quello sul classismo della rivoluzione che fa il peone messicano Juan al bombarolo irlandese Sean in Giù la testa e che vale da sola la nostra gratitudine eterna: «Rivoluzione? Rivoluzione? Per favore, non parlarmi tu di rivoluzione. Io so benissimo cosa sono e come cominciano: c’è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice: “Oh, oh, è venuto il momento di cambiare tutto”. Io so quello che dico, ci son cresciuto in mezzo, alle rivoluzioni. Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri – i poveracci – e gli dicono: “Qui ci vuole un cambiamento!” e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano, e mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzione… E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente… tutto torna come prima!».