Mafie e ambienteSmaltimento abusivo ed export illegale: come nasce il racket degli e-waste

Nel 2018, a livello globale, sono stati prodotti circa 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, molti dei quali finiti nella rete delle ecomafie. Tra continenti-discarica e produzioni inesauribili, i Raee sono la nuova minaccia per l'ambiente

Umberto Eco la chiamava “bulimia senza scopo”, nel gergo tecnico è definita obsolescenza percepita. È, per capirsi, quel fenomeno per cui il nuovo modello di smartphone, appena uscito, rende obsoleto quello che si possiede già, anche se le prestazioni che offre non sono poi tanto migliori. È il desiderio del ricambio, di essere al passo con i tempi e di seguire le mode a rendere ormai “vecchio” lo smartphone. Diventa, così, alla stregua un oggetto d’antiquariato (tecnologico, si intende): il suo valore, ed è la cosa più importante, scende in picchiata. Magari, nel giro di pochi mesi dal suo lancio sul mercato.

Ecco, i Raee, cioè i Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche sono anche questi. A inserirsi in questa categoria sono tutte quelle apparecchiature di tipo elettrico o elettronico guaste, inutilizzate, obsolete o comunque destinate all’abbandono. Ma dove finiscono i milioni di smartphone, di tablet o di lavatrici che ci apprestiamo a rinnovare al primo segno di usura o all’uscita di un modello esteticamente o tecnologicamente più promettente?

Nel 2018, a livello globale, sono stati prodotti circa 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, l’equivalente di 4.500 Torre Eiffel. Nel 2050 è stato calcolato che supereranno i 120 milioni, di pari passo con l’avanzare repente della tecnologia. Allo stato attuale, con un corretto smaltimento dei Raee si avrebbe un giro di affari di circa 62,5 miliardi di dollari: dovuti soprattutto alla presenza di ferro, oro, argento, rame e alluminio, ma anche di quei componenti cosiddetti terre rare (lantanio, ittrio, cerio, samario), ambìti in particolare dalle industrie militari e aerospaziali. Nonostante ciò, la percentuale di Raee correttamente smaltita in termini globali è solo del 20%.

Dove finiscono quindi i rifiuti che non vengono trattati? Malgrado l’Europa sia un modello da seguire, con il 27,5% di produzione di e-waste e il 35% di corretto smaltimento (contro il 15% dell’Asia a fronte di oltre 18 milioni di tonnellate di rifiuti, il 40,7% del totale), Holes in the Circular Economy, l’ultima indagine della Ban (Basel Action Network) in collaborazione con Greenpeace, evidenzia una tendenza piuttosto marcata dei Paesi membri alla pratica dell’export illegale di questi rifiuti. In testa tra i paesi del Vecchio Continente c’è l’Inghilterra, mentre per l’Italia è medaglia di legno e un quarto posto che lascia comunque molti sospetti. Del caso italiano, infatti, sono messi alla luce solo due esempi: un ecocentro di Pianiga, vicino a Venezia, e uno di un’azienda non identificata del milanese. Grazie ai microchip impiantati all’interno di due lotti di Raee è stato possibile per i ricercatori rintracciarli, dopo alcuni mesi, rispettivamente in Ghana e in Nigeria.

Come ci sono finiti? «Conosciamo il problema della gestione illegale dei Raee, che non solo riguarda i Raee che sono esportati verso l’estero ma anche quelli che vengono gestiti illegalmente anche sul territorio nazionale, essendo possibile recuperare metalli preziosi di alto valore», spiega a Linkiesta il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. «Il fenomeno si argina incrementando i controlli e creando condizioni più favorevoli per il corretto conferimento dei rifiuti». La questione, detto ciò, rimane del tutto parziale, in quanto il problema dell’export illegale made in Italy va ben oltre i suddetti casi.

Sono 150 le inchieste sui rifiuti che interessano i maggiori porti del Paese, tra cui spicca su tutti da ormai una decina di anni quello di Ancona. Le rotte dei rifiuti confluiscono soprattutto nel continente africano, dando vita a scenari come quello di Agbogbloshie, un sobborgo di Accra in Ghana la cui discarica e-waste copre un’area pari a quella di 11 campi di calcio. Lì la manodopera ha un costo irrisorio e, una volta ripulito, l’apparecchio prende la via dell’Asia, dove lo attende una seconda vita. In teoria i movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi sono regolati dalla Convenzione di Basilea del 1989, che ratifica come ogni rifiuto elettronico per uscire dai confini Ue e di altri 182 paesi (tranne Haiti e Stati Uniti che non firmarono l’accordo) deve superare specifici controlli. In pratica, però, la storia è diversa.

Il motivo? Oltre a ricorrere al tradizionale alibi delle donazioni o del digital divide, per superare le dogane portuali, le organizzazioni criminali fanno in modo di installare all’interno dei rifiuti in questioni dei software temporanei progettati per avere una durata limitata e in grado di camuffare il rifiuto in usato sicuro. Benché le regole per l’export di rifiuti Raee siano ferree, nulla vieta ai cittadini dei paesi membri di esportare materiale usato. Il collegamento, pertanto, è di facile intuizione. Il passaggio in canali illegali avviene per vie dirette: una volta in Africa e terminato l’effetto placebo del chip, l’apparecchio usato torna a essere un Raee, dando così vita a uno dei mercati clandestini più voluminosi al mondo.

Deve crescere la comunicazione verso i cittadini, molti dei quali non conoscono cosa siano i Raee e dove vadano gettati


Ministro dell’Ambiente Sergio Costa

Ecodom è il più grande consorzio Italiano per il recupero e il riciclaggio di elettrodomestici. Guidato da Giorgio Arienti, presidente anche del Centro Coordinamento Raee, nel 2017 ha gestito il 35,5%, in termini di peso, di tutti i Raee raccolti in Italia. Le istanze di Ecodom e dei cosiddetti operatori del settore, tuttavia, prendono di mira i molti angoli ciechi delle normative su questi rifiuti, in vista anche degli obiettivi che la Direttiva 2012/19/UE pone agli Stati membri. Il traguardo imposto nella linea guida da Bruxelles, con scadenza 2019, pretende dagli Stati membri un tasso minimo del 65% del peso medio delle apparecchiature elettriche ed elettroniche immesse sul mercato nei tre anni precedenti, o in alternativa l’85% dei rifiuti elettronici generati. In Italia siamo ben lontani dal raggiungere l’obiettivo, in quanto del milione di aee (apparecchiature elettriche ed elettroniche ) immesse nel mercato italiano solo la metà vengono raccolte, mentre il resto scompare dai radar.

Perché questo risultato? «Innanzitutto deve crescere la comunicazione verso i cittadini, molti dei quali non sanno nemmeno cosa siano i Raee e dove vadano gettati», spiega ancora il ministro Costa. «In secondo luogo, sarebbe opportuno aumentare i punti di raccolta di questi rifiuti, rendendoli al tempo stesso più accessibili ai cittadini e più semplici dal punto di vista amministrativo da gestire». In altre parole, come confermano i dati di Ecodom, in termini di education gli italiani sono poco informati sul tema dei Raee, in aggiunta alla grande fetta di rifiuti che finisce nelle mani di “battitori liberi” o di organizzazioni criminali, e ai rispettivi modus operandi: dallo smaltimento selvaggio fai da te, a quello clandestino figlio di un commercio parallelo ormai fuori controllo.

La voce allarmante che sale direttamente dai cittadini e dai vertici del governo accende una spia rossa anche sull’operato delle associazioni di categoria. Se quella del cartello dei consorzi è una causa nobile, la complessa grammatica che lega la loro organizzazione un po’ meno. In Italia ci sono circa 15 grandi consorzi per la gestione di Raee, con una media di 25/40 unità tra IT manager, technical support, consiglieri e direttori generali. Questi castelli aziendali, in forza del Decreto n. 235 del 2017, hanno come finalità «la gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (di seguito Raee) nel rispetto dei principi… », ovvero sono esenti, salvo richieste particolari dal Centro di Coordinamento, dalla raccolta ma liberi di stipulare accordi e patti sperimentali, in questo caso con i produttori (Whirlpool, Panasonic, Philips e via dicendo). Gli organici a capo di questi enti non devono far altro che contrattare con le case produttrici e distribuire il traffico di rifiuti ai partner secondari incaricati dello smaltimento.

Questa macchina, non contando il Centro di Coordinamento, viene alimentata grazie al cosiddetto eco-contributo, la sovrattassa al prezzo di listino che i consumatori pagano – inconsciamente e non – a ogni acquisto di un’apparecchiatura elettrica ed elettronica, il quale a sua volta deve la propria volatilità all’evolversi o al regredire dello scheletro amministrativo consorziale. Tirando le somme di questo costoso establishment ecologico, i risultati nazionali sulla raccolta di Raee mostrano – a conferma dello spreco di risorse – come la copiosa presenza geografica non sia sinonimo di efficienza, bensì di incauta distribuzione di fondi pubblici.

Tra le normative italiane, a destare qualche perplessità, sono anche il decreto del ministero dell’Ambiente n.121 del 2016 (uno contro zero) e il decreto di semplificazione n. 65 del 2010 (uno contro uno). Il primo decreto, conosciuto anche come uno contro zero, prevede per i negozi con una superficie di vendita di almeno 400 mq l’obbligo del ritiro gratuito dei Raee con dimensioni fino a 25 cm. Detto questo, il ritiro gratuito è una clausola che in molti si riservano di non citare. In aggiunta al fatto che solo 18 italiani su 100 (secondo studi Ecodom) sanno che è possibile conferire gratuitamente i piccoli apparecchi elettrici ed elettronici, destinati alla discarica, presso i punti vendita.

Per l’uno contro uno invece il discorso è diverso. Grandi bianchi e freddi hanno bisogno di un processo preciso prima di essere smaltiti del tutto. I gas refrigeranti (Cfc, Hcfc, Hfc) e i ritardanti di fiamma bromurati se non trattati con le giuste cautele possono causare danni irreparabili, per ambiente e uomo: se rilasciati in atmosfera danneggiano lo strato di ozono, mentre nell’umano favoriscono il cancro alla tiroide.

Per il principio pathémata mathémata, ovvero «le sofferenze sono insegnamenti», l’Italia dovrebbero essere un’avanguardia nello smaltimento dei Raee. Ovviamente non è così.

I flussi di Raee raccolti con il criterio dell’uno contro uno devono essere separati da quelli ritirati con quello dell’uno contro zero: la lampadina del microonde, lo smartphone, i componenti di alcuni frigoriferi, anche se dello stesso materiale devono essere divisi. Inoltre, l’open scope in vigore da agosto 2018 amplia vistosamente le categorie di prodotti elettrici ed elettronici soggetti alla normativa europea (includendo anche le carte di credito con chip). Il principio di una semplificazione del sistema, vien da sé, sfugge ai molti produttori del settore. Ma il vero nervo scoperto è un altro. Il traffico illegale di Raee è mantenuto in vita non solo dal rigattiere di fiducia – che al massimo può spogliare le apparecchiature, rivendere i pezzi in buono stato e guadarci qualcosa dallo smaltimento della carcassa ferrosa – bensì da quelle organizzazioni criminali che, indirettamente o direttamente, si avvalgono dei servizi di Comuni, produttori e raccoglitori certificati per reperire i materiali.

Cosa accade, dunque, una volta che il cittadino consegna il rifiuto? Coloro che lo ritirano non sono obbligati per legge a consegnarlo ai consorzi, ma solo a chi è in possesso di una regolare licenza per il trattamento di rifiuti. Tradotto: di circa 1 milione di tonnellate di aee prodotte, meno della metà vengono poi raccolte ufficialmente e smaltite come Raee.

Il detonatore che dà vita a questo racket fa perno su un guadagno derivante dalle grandi quantità. Le cosiddette ecomafie, avvalendosi di discariche abusive per la gestione dei componenti di scarto e di intermediazioni con produttori e negozianti, cannibalizzano i Raee privandoli delle materie prime di valore. Nel caso dei Comuni invece, una sorta di escamotage legislativo secondo il quale chi è in possesso di una regolare licenza per smaltire tali rifiuti può legalmente acquistare quest’ultimi senza passare attraverso consorzi o associati, rende nebuloso il confino tra lecito e non lecito. A questo si aggiunge la faticosa rincorsa legislativa dei governi e un controllo a maglie larghe delle forze dell’ordine.

«Con il recepimento nell’ordinamento italiano delle modifiche introdotte dal cosiddetto pacchetto rifiuti, il Governo si è fatto dare i criteri per intervenire sulla normativa del settore introducendo le misure necessarie all’allineamento dell’Italia agli obiettivi europei» spiega Costa. In realtà, la legge 68 introduce nel codice penale un autonomo titolo (Titolo VI-bis) riguardante i delitti contro l’ambiente, mentre per i casi di attività di recupero e commercio illegale di Raee, in Italia, esiste un solo specifico reato: art. 260 del D.Lgs 152/2006 (ex art. 53bis del Decreto Ronchi), con valenza internazionale incorre anche l’art. 259. Questo per sottolineare come una decennale costituzione sui rifiuti Raee – complessiva di normative e direttive europee – non sia ancora abbastanza per arginare un fenomeno in netta crescita.

Oltre a dover lottare contro un esponenziale aumento dei reati ambientali, il governo italiano deve rimanere sul chi vive anche sul fronte europeo, dove il Parlamento (a sorpresa) durante gli ultimi mesi del 2018 ha deciso di revisionare il Regolamento 850/2018 sui composti organici persistenti (Regolamento POP), mettendo a rischio il riciclo delle plastiche provenienti dai rifiuti elettrici ed elettronici e dai veicoli a fine vita.

Rimanendo tra le mura nazionali, i dati del rapporto di Legambiente sono a dir poco preoccupanti. Sono 76 le inchieste per traffico organizzato (erano 32 nel 2016), 177 arresti, 992 trafficanti denunciati e 4,4 milioni di tonnellate di rifiuti sequestrati (otto volte di più rispetto alle 556 mila tonnellate del 2016). La Campania rimane sul gradino più in alto per il numero di reati, concentrati per il 44% nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa. Lo studio, coadiuvato dall’Ispra e dal Sistema nazionale di protezione ambientale, denuncia 17mila nuove discariche abusive a livello nazionale, un fatturato dell’ecomafia a quota 14,1 miliardi (+9,4% in un anno) e 331 clan attivi nelle varie forme di crimine ambientale. La realtà criminale, inoltre, si lega a quella degli smaltimenti selvaggi. Il fatto che gran parte delle discariche abusive e le percentuali di raccolta Raee sotto la soglia minima siano tutte collocate al sud Italia, salvo il caso di Livorno che grazie alla sua capacità portuale riesce a occultare tonnellate e tonnellate di rifiuti esportandoli in Africa, non dipende solo da attività illegali. I numeri parlano infatti di una mancanza di infrastrutture (isole ecologiche) in grado di adempiere alla domanda di smaltimento domestico. Nello specifico, da Roma in poi i cittadini non sanno dove buttare il proprio frullatore o il proprio smartphone, dando vita, con l’abbandono in strada, alla produzione – anche se inconsapevole – di materie prime utili per alimentare il mercato nero delle ecomafie. Insomma, una ferita che lacera la nazione sotto due prospettive: quella economica (appena citata) e quella ambientale.

I rischi di una catastrofe ambientale sono all’ordine del giorno e, con l’aggravante di alcuni componenti speciali dei Raee (come le polveri fluorescenti nelle Tv o il Cfc dei compressori), l’effetto sarebbe catastrofico. Un esempio è l’incendio dello stabilimento Eco x di Pomezia del 2017: in poche ore di combustione vennero sprigionate diossina, polveri sottili, benzene, policiclici aromatici e probabilmente amianto.

Per il principio greco pathémata mathémata, ovvero «le sofferenze sono insegnamenti», l’Italia dovrebbero essere un’avanguardia nello smaltimento dei Raee. Ovviamente non è così. Se il caso dell’Eco x di Pomezia non ha chiarito bene quale sia la posta in gioco, nel gotha dei disastri ambientali sale di diritto la frigo valley di Tivoli. Non serve infatti arrivare fino alle coste ghanesi di Accra. Alle porte di Roma, nel comune di Tivoli, precisamente nella frazione di Bagno a Tivoli, si perde a vista d’occhio un cimitero di frigoriferi sventrati e abbandonati. Il problema risale a una decina di anni fa, quando stabilmente in quel luogo viveva una comunità rom italiana. Il legame instauratosi tra quest’ultima e alcuni gestori di rifiuti, ha fatto sì che ben presto il sito, conosciuto come ex Polverificio Stacchini, prendesse le funzioni di una discarica abusiva. Frigoriferi smantellati delle materie prime, copertoni, amianto e detriti delle case matte costruite al tempo del polverificio, si fondono in un unico monolite già visibile dalla bretella dell’autostrada A1. E nonostante le falde acquifere poco profonde (del vicino fiume Aniene), vasche sotterranee dove venivano annegate le polveri dello Stacchini e sversamenti dei miasmi prodotti dai Raee, la questione bonifica resta un tabù.

L’impasse si deve a un vincolo ambientale (proprio così) posto proprio dalla Regione Lazio per proteggere una specie rara di lichene presente su quel territorio, trasformandolo di conseguenza in un habitat intoccabile. Finalmente una tutela per l’ambiente, viene da pensare. Non è del tutto vero. Lo studio botanico che ha reso off limits l’area risale alla fine degli anni ’60. Per l’attuazione in toto del vincolo da parte della Regione dobbiamo aspettare dicembre 2018 (senza previi controlli preliminari in loco). Ora, lo stato in cui versa l’ex Stacchini è noto a enti e Regione dagli inizi del 2000; il monitoraggio fisico della zona è tuttavia assente sia per il timore di rappresaglie da parte della comunità rom, sia perché (come confermano i vertici del Comune di Tivoli) lo spazio era diventato zona franca per negozianti e gestori di Raee. Tale miopia, a margine di tutti i provvedimenti, ha reso invisibile un aspetto fondamentale, ovvero il completo mutamento dell’habitat stesso dovuto alla “decomposizione” dei rifiuti.

A conferma dell’assenza totale di verifiche e sopralluoghi e per confondere maggiormente le acque, la Regione attiva anche un Prusst (Programma di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo Sostenibile del Territorio) sull’intera zona che – non è una battuta!– rimane comunque sospesa dal vincolo. Il blocco è totale: niente bonifica, niente riqualificazione e nessuna chance di sopravvivenza per la specie. Il paradosso, oltre alla completa assenza delle istituzioni in termini di controlli, è che di questa specie di lichene se ne sono quasi perse le tracce: il caso vuole infatti che le montagne più vistose di rifiuti facciano da coperta proprio agli sfoghi più cospicui di questa pianta.

Il risultato finale? Le scorie molto probabilmente hanno avuto la meglio sull’ecosistema: il terreno allo stato attuale rischia di non essere più edificabile, per la gioia dell’attuale proprietaria Euroiset, ma peggio ancora, c’è la possibilità che un’arteria come l’Aniene sia stata inquinata. Irreparabilmente.

 

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