Pubblichiamo un estratto da 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, di Jorgen Randers (Edizioni Ambiente)
Nel 2052 solo due paesi, Francia e Cina, staranno ancora producendo elettricità dall’energia nucleare – ed entrambi avranno comunque deciso di abbandonare del tutto il nucleare entro il 2065. Sospetto che oggi in pochi si dichiarerebbero d’accordo con questa affermazione. Nonostante il disastro di Fukushima nella primavera del 2011, nell’autunno successivo l’umore prevalente nella maggior parte dei paesi era rimasto ampiamente a favore di un qualche tipo di rinascita del nucleare. In ogni modo, anche prima di Fukushima, questa rinascita non è stata esattamente ciò che sarebbe dovuto essere. Come sottolinea l’esperto di energia Amory Lovins, “ci sono oggi 61 centrali nucleari ‘ufficialmente’ in costruzione. Tuttavia, di queste 61 unità, 12 sono ‘in costruzione’ da oltre 20 anni; per 43 non c’è nessuna data di avvio dei lavori ufficiale; la metà sono in ritardo, 45 si trovano in quattro sistemi energetici progettati centralmente e poco trasparenti, e per nessuna si può parlare di autentica transazione di libero mercato”. Il fatto che di tale rinascita si sia parlato molte volte dopo il disastro di Chernobyl del 1986, ma che non si sia mai concretizzata, è del tutto irrilevante.
Le speranze nucleari non svaniscono mai del tutto, e il timore di un’accelerazione del cambiamento climatico ha contribuito alla diffusione di queste speranze – persino tra alcuni degli ambientalisti più in vista negli Stati Uniti e in Europa, che un tempo sarebbero inorriditi davanti alla possibilità che un futuro a basso contenuto di carbonio potesse essere costruito sull’energia nucleare. Gran parte del fronte pro-nucleare del XXI secolo adotta un tono da “male necessario”: non c’è nessun entusiasmo per la tecnologia in sé, tanto meno per l’industria nucleare. Per l’ambientalista britannico George Monbiot non c’è alcuna contraddizione tra “l’innamorarsi del nucleare” e il descrivere quelli che lavorano per l’industria nucleare come “un branco di canaglie disoneste”.
Nel 2006 la Sustainable Development Commission ha fornito un parere al governo britannico sui pro e i contro dell’energia nucleare. I benefici erano evidenti e rilevanti: costi operativi molto bassi, con una ragionevole sicurezza delle riserve di combustibile per una fonte di elettricità a basso contenuto di carbonio se paragonata ai combustibili fossili. Per la commissione, tuttavia, gli aspetti negativi superavano di gran lunga quelli positivi: enormi costi di capitale; nessuna soluzione reale per la gestione delle scorie nucleari e per lo smantellamento a fine vita delle centrali; preoccupazioni sulla proliferazione e la sicurezza; importanti questioni etiche in merito alla giustizia intergenerazionale (perché i problemi legati al nucleare vengono scaricati sulle future generazioni) e notevoli “azzardi morali”, visto che l’industria sfrutta brutalmente i governi e li molla quando le cose vanno male. E accade sempre. Il parere fu ignorato. Il potere dell’industria nelle nazioni nucleari è enorme.
Quando i contribuenti avranno chiara la combinazione tra rischi ed enormi conti che dovranno pagare, il movimento anti-nucleare guadagnerà un nuovo slancio
Detto questo, perché qualcuno potrebbe credere che il settore arriverà al capolinea entro il 2052? Per tre ragioni. La prima è finanziaria. Per quanto l’industria si adoperi per oscurare i veri costi dell’energia nucleare, gli investitori hanno capito cosa sta succedendo. Quando il governo britannico si è impegnato a non usare soldi pubblici per sviluppare una nuova generazione di energia nucleare, gli investitori si sono messi a ridere. Un reattore nucleare senza sussidi semplicemente non esiste – in nessuna parte del mondo – e a meno che l’ammontare del sussidio offerto dal governo elimini il rischio degli investimenti in modo sostanziale, gli investitori non ci penseranno un secondo a metterci dei soldi. Dopo Fukushima, la sfida di eliminare il rischio è diventata quasi insormontabile. Fatto straordinario, l’industria nucleare è però ancora esentata dall’obbligo di coprire i costi reali per assicurare le proprie centrali – per l’evidente ragione che il prezzo di questa copertura farebbe saltare qualsiasi bilancio. I sostenitori del nucleare ovviamente argomentano che i reattori di Fukushima erano molto vecchi, e che i nuovi reattori sarebbero molto più efficienti e sicuri. E, per essere onesti, è possibile che lo siano. Ma non sappiamo per quanti anni, e l’unica risposta onesta a queste affermazioni è un profondo scetticismo, visto che negli ultimi decenni queste previsioni si sono rivelate troppe volte infondate.
La seconda ragione per cui credo che il settore sarà quasi completamente morto nel 2052 è che il contributo che può dare a un mondo sicuro e a basso contenuto di carbonio è estremamente limitato. L’industria nucleare oggi genera circa il 13% dell’elettricità mondiale, e solo il 5,5% dell’energia commerciale primaria. Era già in declino prima di Fukushima, e questo declino può solo accelerare dopo Fukushima. Nel marzo 2011 c’erano 437 reattori attivi nel mondo. Dal 2008 ne sono stati avviati nove, per la maggior parte in Cina, e 11 sono stati chiusi. L’età media delle centrali attuali è di ventisei anni, e l’industria sperava – prima di Fukushima – di estendere la loro operatività fino a quarant’anni o più. Dopo l’incidente del marzo 2011 sarà molto più difficile. Questi sono i fatti: da adesso al 2025 dovrebbero essere attivati 260 nuovi reattori solo per tenere il passo con il programma di chiusura (sempre che l’operatività dei vecchi reattori non venga estesa oltre ogni ragionevolezza). Serve quindi un folle ottimismo per pensare che l’energia nucleare possa fornire qualcosa di più dell’attuale 5,5% entro il 2030, con un costo enorme a carico dei contribuenti in tutto il mondo. Nello stesso tempo, potrebbero essere installati livelli molto più alti di capacità produttiva da rinnovabili. Dare priorità al nucleare mette a rischio gli investimenti nelle rinnovabili.
Ironicamente, questo peggiorerebbe in modo sostanziale le prospettive di un futuro a basso carbonio, dato che i combustibili verrebbero usati molto più a lungo del necessario. Ecco il “sogno nucleare” in estrema sintesi: un contributo molto piccolo al nostro futuro energetico a basso contenuto di carbonio, con costi enormi e grandi rischi, che invece di diminuire acuisce la nostra dipendenza dai combustibili fossili.
E c’è un’ultima ragione per cui il sogno nucleare non si realizzerà mai, e riguarda la vulnerabilità delle strutture nucleari agli attacchi terroristici. Mi sembra inevitabile che nel prossimo decennio ce ne saranno: molti esperti di sicurezza sono in effetti stupiti che non si siano già verificati. La possibilità che si tratti di un cyber-attacco è stata amplificata dal “successo” dei governi israeliano e statunitense, che hanno infiltrato il loro Stuxnet Worm nel codice operativo del sistema nucleare iraniano. Ma è altrettanto verosimile un attacco fisico, non necessariamente contro un reattore, magari contro le strutture “temporanee” per lo stoccaggio del combustibile nucleare situate nei pressi di molti reattori. Il livello di protezione di queste strutture è molto inferiore a quello dei reattori. È comprensibile che in molti siano reticenti, dato che i danni ne deriverebbero sono difficili da immaginare. Ma la verità è che l’intero settore è estremamente vulnerabile. Ecco come la vedo io: dopo Fukushima, il settore sarà sempre più in affanno. Gli investitori sono stati spaventati dall’incidente in Giappone e dai continui e massicci sforamenti dei costi. Quando i contribuenti avranno chiara la combinazione tra rischi ed enormi conti che dovranno pagare, il movimento anti-nucleare guadagnerà un nuovo slancio.
Il successo di una Germania nonnucleare convincerà molti che il nucleare non è nemmeno l’opzione “meno peggio”. Nei prossimi dieci o quindici anni verranno quindi costruiti pochi reattori, e quasi tutti sorgeranno in regimi centralizzati come quello cinese. Come se non bastasse, immaginate che a un certo punto venga accertata la possibilità di un attacco terroristico contro uno dei reattori più vecchi negli Stati Uniti o in Europa (non deve essere necessariamente un attacco effettivo; la certezza che tale attacco è possibile sarebbe sufficiente). Una notizia simile scatenerebbe il panico in tutto il mondo, e il valore delle azioni delle compagnie energetiche con capacità nucleare cadrebbe a picco. I governi saranno costretti a chiudere i reattori esistenti o ad annunciare insindacabili programmi di dismissione, con la promessa di non mettere mai più in agenda alcuna nuova costruzione. Perfino la Francia e la Cina saranno obbligate a fare lo stesso. In quel momento le argomentazioni in favore di un’alternativa non nucleare prenderanno il sopravvento (trainate da massicci investimenti in efficienza, rinnovabili, produzione combinata di calore ed energia, e cattura e stoccaggio del carbonio installati su tutte le centrali a gas e biomasse). Fine della storia. Fine del nucleare.
*fondatore-direttore del Forum for the Future (www.forumforthefuture.org) ed è il condirettore del Business and Sustainability Programme del Principe del Galles. È stato direttore di Friends of the Earth e presidente del Partito dei verdi in Gran Bretagna