Invisibili presenzeUn fantasma chiamato Moavero: così il ministro invisibile trama per fare il commissario europeo

Si contano sulle dita di una mano le dichiarazioni del ministro degli Esteri che sta cercando di tornare a Bruxelles nel modo più veloce possibile. Ha fatto parte dei governi Monti, Letta e Conte. Stimato dal Quirinale, Lega e M5S potrebbero proporlo perché non hanno candidati comuni a disposizione

ABBAS MOMANI / AFP

Il ministro più invisibile del Governo potrebbe essere il prossimo commissario europeo italiano. Enzo Moavero Milanesi è l’uomo per tutte le stagioni della politica nostrana, il nome che metterebbe d’accordo tutti: Movimento Cinque Stelle, Lega e il Quirinale. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha nominato ministro degli Esteri per tranquillizzare le cancellerie internazionali sulla condotta del governo gialloverde. Moavero Milanesi ha il curriculum del perfetto eurocrate, trattenete il respiro: ex consigliere dei presidenti del Consiglio Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi nel biennio 1992-1993, capo di gabinetto dei commissari europei Filippo Maria Pandolfi e Mario Monti. Silvio Berlusconi lo nomina giudice del Tribunale di primo grado della Corte di Giustizia dell’Unione europea, confermato poi dal suo successore Romano Prodi. Il collega e amico Monti lo sceglie nel 2011 come ministro degli Affari europei per ricostruire l’immagine stropicciata dell’Italia in Europa ed Enrico Letta gli dà lo stesso dicastero per non rovinare il buon lavoro fatto. Nel 2016 Paolo Gentiloni lo nomina lobbista per promuovere il trasferimento dell’Agenzia europea del farmaco (Ema) da Londra a Milano che finisce ad Amsterdam solo per colpa di una monetina. Mal di testa? E abbiamo lasciato fuori altri quattro incarichi europei rilevanti.

Fanatico europeista, Moavero Milanesi è la discrezione fatta persona: attento alla sua immagine pubblica, telefona in modo compulsivo ai giornalisti a cui gli capita di passare delle notizie, è un grandissimo conoscitore delle dinamiche di palazzo europeo e sa che anche solo una dichiarazione può costare una carriera. Come è successo nel 2004 a Rocco Buttiglione, il candidato italiano proposto dal governo Berlusconi la cui nomina da commissario fu bocciata dal Parlamento europeo per alcune frasi ritenute omofobe. Più di un funzionario della Farnesina sussurra che Moavero Milanesi fin dal primo giorno della nascita del Governo gialloverde ha accettato di fare il ministro degli Esteri per due motivi: la pressione di Mattarella e la possibilità di costruirsi l’opportunità politica di diventare commissario europeo. In dieci mesi di Governo si contano sulle dita d’una mano suoi interventi passati alla cronaca. Poche dichiarazioni, nessun titolo giornale o intervento a gamba tesa per chiarire la politica estera del governo. Eppure tra Libia e Venezuela avrebbe dovuto parlare eccome. Moavero Milanesi ha scelto un profilo basso, preferendo non fare la sintesi delle contraddizioni in politica estera di Lega e Movimento Cinque Stelle in pubblico, ma lavorando dietro le quinte, rassicurando a microfoni spenti e telefoni speciali accesi le cancellerie europee.

Per lanciare un messaggio ai colleghi europei, il 2 maggio, a Firenze, Moavero Milanesi ha lanciato le sue cinque proposte per cambiare l’Europa. Da una politica comune su migrazioni e difesa al potere di iniziativa legislativa per il Parlamento europeo. Idee talmente generiche che potrebbero essere adattabili a qualsiasi nuova commissione. E non manca una strizzatina d’occhio a Lega e 5 stelle sulla necessità che la prossima commissione europea sia più politica. L’aspetto più interessante del discorso di Firenze è che Moavero Milanesi tradisce la sua grande qualità di mediatore dietro le quinte che potrebbe tornare utile da commissario perché propone di realizzare le riforme senza cambiare i trattati europei, pur non perdendo di vista la prospettiva di cambiarli in futuro. Un altro aspetto da non sottovalutare è che in questi anni Moavero Milanesi ha tessuto relazioni con il probabile prossimo presidente della Commissione Michel Barnier, di cui è stato consigliere speciale per gli aspetti giuridici del mercato interno nel 2014, così come ha consigliato il candidato dei socialisti europei Frans Timmermans dal 2015 al 2017 su come migliorare la regolamentazione europea. Due esperienze che non saranno dimenticate quando si deciderà il nome del commissario italiano. Anche perché la Commissione europea non è una squadra di calcetto. Non si può nominare il proprio candidato e pensare che sia scelto subito. Lo stesso Jean-Claude Juncker ha confessato poche settimane fa: «Nessuno lo sa, ma l’ultima volta ho rifiutato i candidati di sei commissari che mi sono stati presentati dai governi nazionali».

Moavero Milanesi risolverebbe anche il problema dei Cinque Stelle che da giovane forza politica non ha un nome spendibile per la Commissione a meno di non voler mandare Giuseppe Conte a Bruxelles, ma in quel caso non ci sarebbe più il governo. Anche la Lega non ha una “risorsa della Repubblica” a disposizione e gli unici che avrebbero collegamenti europei, Maroni a Calderoli per dire, sono stati esclusi o coinvolti dietro le quinte per far spazio alla nuova guardia. L’unico con un minimo di militanza al Parlamento europeo è Mario Borghezio ma non è stato ricandidato e Angelo Ciocca, fedelissimo di Matteo Salvini, qualche mese fa ha imbrattato con la sua scarpa un discorso pronunciato pochi minuti prima dal commissario europeo agli affari monetari Pierre Moscovici. Non proprio il miglior biglietto da visita. A Salvini rimarrebbero due nomi papabili su cui si potrebbe impuntare per fare un dispetto ai 5 Stelle. Uno è il sempiterno Giancarlo Giorgetti che però sembra più a suo agio nel circo della politica italiana e Luca Zaia che ha due pregi: il suo mandato da presidente della Regione Veneto scade nel 2020 e potrebbe essere un più che valido commissario per le politiche agricole visto che è stato ministro dell’Agricoltura con Berlusconi. Moavero Milanesi sa che il punto debole del tridente è proprio la Lega e per questo ha lanciato un segnale a Salvini in un’intervista al Messaggero in cui ha difeso le prerogative del ministro dell’Interno di occuparsi della questione sbarchi e ha lodato il secondo decreto sicurezza voluto dal capo del Viminale.

Già nel 2014 l’Italia ottenne il massimo a disposizione. Prima delle elezioni europee si parlava di Paolo De Castro come commissario europeo all’agricoltura, ma il Partito Democratico guidato da Matteo Renzi prese il 40,8% dei voti e l’allora presidente del Consiglio usò la carta del partito più votato d’Europa per ottenere un commissario di prestigio. Così la sua ministra degli Esteri Federica Mogherini diventò vice presidente della Commissione e Alto rappresentante per gli Affari Esteri, dopo soli sei mesi alla Farnesina. Nella logica dei rapporti di forza nell’Unione europea è normale che all’Italia non vada un commissario economico, visto che il rapporto debito/PIL è al 132,2% e per ogni legge di bilancio c’è un estenuante braccio di ferro tra Bruxelles e Roma. Chiariamo una cosa: non è la solita propaganda europeista sull’Italia sporca brutta e cattiva che non fa i compiti a casa. Si potrebbe dire alla Francia che da dieci anni sfora il tetto del 3% (però sempre in diminuzione) e alla Germania ha violato 18 volte il patto di Stabilità, come ha ricordato il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Ma qui non è questione di chi è più puro ma di quanti Paesi si opporrebbero a un commissario economico italiano. E sono molti: Paesi Bassi, Austria, Finlandia, Lettonia. Per questo quando si parla di portafogli economici lo si assegna a un politico di quelle latitudini o per andare sul sicuro a uno dei due Paesi pilastro dell’Unione: Francia e Germania. Non a caso ora il ministro per il bilancio è il tedesco Günther Oettinger, quello per gli affari monetari ed economici è il francese Pierre Moscovici e il commissario europeo per l’euro è il lettone Valdis Dombrovskis.

Tutto sbagliato, tutto da rifare? Comunque la pensiate questi sono i rapporti di forza, ed è sempre stato così. In sessant’anni di storia europea l’Italia non ha mai avuto commissari strettamente economici monetari o legati al budget. Ci sono stati quattro commissari alla politica industriale (l’ultimo Tajani), due alla Scienza, uno per la politica regionale, allargamento, giustizia. E solo quattro volte un italiano è stato commissario al prestigioso mercato interno. Ma bisogna ricordare che i primi tre li abbiamo avuti ininterrottamente dal 1958 al 1967 e il quarto, Mario Monti (che aveva anche la delega alla concorrenza) ha terminato il mandato nel 1999, quando l’Euro aveva solo un anno di vita. L’Italia però è stata risarcita con ruoli politici di grande prestigio come le presidenze della Commissione e del Parlamento europeo. In politica tutto è possibile. Ma è difficile che il governo italiano più isolato in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale possa ottenere il commissario più ambito e sforare quanto vuole i parametri di Maastricht e Fiscal Compact. Mai dire mai. D’altronde il presidente del Consiglio Conte ha detto che il 2019 sarebbe stato un anno bellissimo.

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