Il libroNon c’è ambientalismo senza giustizia sociale: ecco il vero green new deal per l’Europa

A due settimane dalle elezioni europee, Legambiente presenta un compendio di proposte in cui l’economia decarbonizzata e circolare è la base da cui partire per trasformare i cambiamenti climatici in occasioni di sviluppo e innovazione

FADEL SENNA / AFP

Un documento che si ispira al New Deal degli anni Trenta, quello che servì a risollevare gli Stati Uniti dalla Grande Depressione. A due settimane dalle elezioni europee, Legambiente ha presentato il suo Green New Deal per l’Europa, un compendio di proposte in cui l’economia decarbonizzata e circolare è la base da cui partire non solo per trasformare i cambiamenti climatici in occasioni di sviluppo e innovazione, ma anche per affrontare le sfide delle disuguaglianze crescenti, del lavoro e dell’immigrazione. «La questione ambientale è il tema per dare un senso al progetto europeo», spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. «Solo l’ambiente riesce a tenere insieme lavoro, innovazione, economia, migrazioni. Non si può, ad esempio, dare una risposta alla questione migranti senza pensare alla questione ambientale: gli impatti climatici sui territori generano migrazioni e disuguaglianze».

“Giustizia ambientale e giustizia sociale hanno un comune destino”, quindi, come scrive Fabrizio Barca nel suo intervento contenuto nel testo. E la stessa transizione ecologica, con lo stravolgimento dei modelli produttivi e del lavoro, deve tenerne conto per essere “giusta”. Barca parla di “progresso socio-ecologico”, ovvero l’idea che la transizione urgente verso la giustizia ambientale tenga sempre conto dei suoi effetti sociali, per evitare che siano i lavoratori più vulnerabili a pagare i costi della transizione. «La decarbonizzazione è una grande opportunità per investire», spiega Maurizio Albrizio, che dirige l’ufficio europeo di Legambiente, «ma avrà un grande impatto sociale e abbiamo l’obbligo di non lasciare indietro nessuno. Il Green New Deal è un grande e nuovo contratto sociale con i cittadini».

Ecco l’intervento di Fabrizio Barca:

Il destino comune di giustizia ambientale e giustizia sociale

In questa fase difficile e aperta a esiti così diversi della vita nostra e delle nostre società, ingiustizia sociale e minaccia ambientale dominano i pensieri e il quotidiano agire di tutti noi. La sofferenza per l’oggi e l’ansia per il domani colpiscono in particolare quelli di noi che non hanno i mezzi finanziari e il contesto sociale e relazionale per costruirsi una difesa, o magari per cogliere i benefici del cambiamento tecnologico, della globalizzazione e delle misure per contrastare il cambiamento climatico I fatti sono noti. A livello internazionale, la disuguaglianza di reddito si è ridotta per la prima volta da tempo ed è emerso (specie in Asia) un nuovo ceto medio; ma la dimensione e la gravità della povertà (di reddito, di salute, di istruzione, di potere sulle decisioni) sono insopportabili e suscitano movimenti globali. In Occidente, e da noi in Italia, le disuguaglianze hanno da trent’anni smesso di scendere, sono spesso risalite – specie per la ricchezza – e sono gravi in tutte le dimensioni di vita: economica, di lavoro (con una gravissima polarizzazione dei redditi e del grado di certezza e autonomia), di accesso (e qualità) ai servizi fondamentali e alla ricchezza comune, di riconoscimento dei nostri valori e delle nostre aspirazioni (specie per i cittadini delle aree interne, delle periferie, delle terre di mezzo). Assente un riferimento politico e culturale che apra uno scenario di emancipazione, la rabbia e il risentimento che discendono da queste ingiustizie si sono tradotte in una “dinamica autoritaria”.

E poiché i ceti deboli percepiscono spesso che le politiche ambientali sono in primo luogo pensate dai ceti forti e per i ceti forti e sono finanziate a loro principale carico (si pensi alle imposte sugli idrocarburi che gravano in primo luogo sui cittadini delle aree rurali e remote), di questa dinamica perversa fa parte anche un’avversione alle politiche di sostenibilità ambientale, e un’implicita alleanza con le forze produttive legate a un modo di produrre insostenibile. Se si condivide questa diagnosi, diventa evidente che giustizia ambientale e giustizia sociale hanno un comune destino: non solo perché l’una influenza l’altra, ma perché il consenso popolare alla giustizia ambientale richiede un disegno strategico che promuova la giustizia sociale. Gli interessi delle future generazioni, quelle che non hanno voce in capitolo, e gli interessi della parte con meno mezzi e potere delle generazioni in vita sono inestricabilmente legati. Ben lo rappresenta l’espressione “libertà sostanziale sostenibile”4 coniata dal Nobel Amartya Sen. È una delle tesi costitutive del lavoro del Forum Disuguaglianze e Diversità, espressa nel Rapporto appena prodotto. Proposte per la giustizia sociale e in particolare nella sua proposta n. 10. È ciò che molte parti più mature dei movimenti che perseguono l’uno e l’altro obiettivo sanno da tempo e che è colto nel termine di “transizione equa” verso una società ecologicamente sostenibile. Ma che fatica ancora a diventare senso comune. Ecco allora l’importanza del rapporto Uguaglianza sostenibile5 redatto da una commissione indipendente su iniziativa dell’Alleanza progressista di socialisti e democratici al parlamento europeo, 30 ricercatori di università e istituzioni di tutta Europa.6 L’intreccio fra giustizia sociale e ambientale pervade tutte le oltre 100 proposte avanzate dal rapporto, e trova una sintesi istituzionale nella proposta finale di trasformare radicalmente il processo di formazione coordinata dei bilanci dei paesi dell’Unione, noto come “semestre europeo”. Di seguito, tratteggiamo l’impianto concettuale del rapporto e il contenuto delle cinque connesse tematiche con cui le proposte sono riassunte.

Si tratta di usare questa piattaforma come un terreno per discutere, per tornare a mettere al centro i contenuti con cui si intende trasformare la rabbia e il risentimento di questa fase in una spinta per l’emancipazione, per la giustizia sociale, e per la giustizia ambientale


Fabrizio Barca

Nell’impianto concettuale e interpretativo del rapporto, indispensabile per ogni proposta di cambiamento che non sia estemporanea o tattica, oltre al punto centrale da cui abbiamo preso le mosse, ci sono quattro punti di forza. Primo, la consapevolezza della natura sistemica e radicale delle politiche da realizzare. Secondo, la convinzione che redistribuire sia necessario, e che si debba tornare a farlo soprattutto in ambito fiscale, ma che ciò non sia sufficiente: occorre intervenire nei meccanismi di formazione della ricchezza, prima di tutto nel cambiamento tecnologico e nel potere negoziale del lavoro e dei cittadini – sono i meccanismi su cui il Forum Disuguaglianze e Diversità ha messo i riflettori, assieme al passaggio generazionale. Terzo, l’opportunità di costruire la svolta guardando avanti, e in particolare mettendo a uso due profonde novità della fase che viviamo: il ruolo delle organizzazioni di cittadinanza attiva nella messa in opera di diritti, cura dei beni comuni e sostegno ai soggetti deboli; le comunità di innovatori che utilizzano la rete per produrre patrimoni di conoscenza aperta. Quarto, e non certo ultima, la realizzazione che se l’inversione radicale delle politiche è necessaria per ogni stato nazionale, da essa dipende l’esistenza stessa dell’Unione europea. E veniamo alle 100 (anzi 110) politiche. Il primo gruppo di esse mira a dare potere alle persone. Comprende, in primo luogo, un blocco di misure volte a ridare potere negoziale al lavoro: promuovendo la partecipazione strategica dei lavoratori, riconoscendo al lavoro pseudo-autonomo (gig economy, partite Iva, lavoro sommerso che affianca l’automazione o l’intelligenza artificiale) diritti oggi negati, promuovendo il rafforzamento dei sindacati. A queste si accompagna un blocco di misure volte ad accrescere gli spazi di azione e il ruolo delle organizzazioni di cittadinanza attiva: diffondendo i metodi del Codice europeo di condotta del partenariato e definendo standard minimi di partecipazione. Il secondo gruppo di proposte mira a dare una forma diversa al capitalismo.

C’è in questo obiettivo il rigetto di quell’assunto “non c’è alternativa” che ha dominato a lungo il pensiero di larga parte degli eredi del pensiero socialdemocratico. Le proposte avanzate spaziano dalla promozione di forme di impresa (esistenti) che non soggiacciono all’imperativo unico della massimizzazione del “valore patrimoniale”, incorporando obiettivi sociali e ambientali, a un vasto insieme di misure che blocchino l’elusione delle imposte sulle imprese, a cominciare dalla definizione in Europa di una base impositiva unica che includa l’economia digitale. Il terzo gruppo affronta direttamente l’obiettivo della giustizia sociale. Comprende fra gli altri: una strategia contro la povertà e sulla casa che si dà carico di reperire i mezzi finanziari; la progressiva fissazione di standard minimi europei per salute e reddito minimo, da sottoporre a monitoraggio; misure per innalzare verso l’alto i salari minimi; interventi volti a rafforzare il potere – parola, anche questa, felicemente tornata al centro dell’analisi – delle donne. E poi, l’utilizzo della politica di coesione come strumento operativo per togliere alle politiche pubbliche la cecità alle persone nei territori, che tanto ha contribuito ad accrescere i divari fra aree interne e urbane, fra periferie e centri urbani. Manca – è uno dei due limiti seri del rapporto – la proposta di un’iniziativa europea sull’istruzione. E poi c’è l’obiettivo del progresso socio-ecologico, con cui si riassume l’idea che la transizione urgente verso la giustizia ambientale tenga sempre conto dei suoi effetti sociali, per evitare, come si scrive, che siano i vulnerabili a pagare i costi della transizione. Le misure indicate riguardano, fra gli altri, il disegno della Politica agricola post-2020, dove le trasformazioni necessarie (specie per ridurre le emissioni di gas a effetto serra) devono tutelare il prezioso bene comune della popolazione impegnata in agricoltura; la necessità che le scelte di investimento per contrastare il cambiamento climatico – almeno il 25% del prossimo bilancio europeo post-2020 – siano davvero improntate a una logica di giustizia sociale, e a tale scopo la creazione di una vice-presidenza apposita della Commissione e di forme rafforzate di partecipazione a tali scelte del mondo del lavoro e dei cittadini. Infine, nella quinta parte, innescare il cambiamento, il rapporto si chiede come l’inversione di rotta configurata possa essere avviata. Il punto di forza di quest’ultima sezione sta nella proposta di cambiare radicalmente il meccanismo del cosiddetto “semestre europeo”, con cui le politiche di bilancio dei singoli paesi membri trovano un momento di coerenza e di rispondenza a indirizzi generali europei, finora dominati dall’obiettivo di evitare squilibri di bilancio. A tale obiettivo si affiancherebbe ora, con lo stesso rango, il mix di obiettivi ambientali e sociali fin qui richiamato. Ciò avverrebbe in una logica di mediolungo termine, dentro un “Patto di sviluppo sostenibile multi-annuale”, presidiato dalle direzioni competenti, riportate finalmente su un piano di parità rispetto alla Direzione affari economici e finanziari.

Nell’attuazione di questi indirizzi, la politica di coesione aiuterebbe a sospingere le politiche settoriali a tenere conto delle esigenze dei singoli territori. È un disegno che convince. Ma alla sua ambizione non corrisponde altrettanta ambizione nello scandire gli altri inneschi necessari, pure richiamati: quali la tutela degli investimenti pubblici nazionali dai tagli di bilancio e la previsione di strumenti anticiclici a livello europeo. Queste e altre misure richiederebbero scelte politiche che purtroppo non sono ancora mature fra i partiti del gruppo S&D che ha promosso l’analisi. Il che ci porta a rilevare, in conclusione, limite e forza del rapporto. Il limite di essere prodotto dentro una “famiglia politica” che procede, paese per paese, in modo non coeso. La forza, dovuta ai due brillanti co-presidenti della Commissione – Louka Katseli e Poul Nyrup Rasmussen, due politici di vaglia che hanno guardato oltre i piccoli orizzonti nazionali – di mettere sul tavolo una piattaforma radicale e di svolta, spingendosi fino ai limiti del possibile. Per questa ragione, non aiuta fermarsi alle singole proposte, rilevarne il gran numero, enfatizzare le mancanze o persino notare il “bruxellese” del linguaggio. Ciò che conta, il contributo del rapporto, sta nell’insieme di un disegno che rompe decisamente con i gravi errori dell’ultimo trentennio, commessi sotto l’egemonia neo-liberista. Si tratta di usare questa piattaforma come un terreno per discutere, per tornare a mettere al centro i contenuti con cui si intende trasformare la rabbia e il risentimento di questa fase in una spinta per l’emancipazione, per la giustizia sociale e per la giustizia ambientale.

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