Gli avversari lo chiamano «il cretino delle Alpi», ma potrebbe essere il prossimo presidente della Commissione europea. Gli inglesi lo odiano perché grazie alla sua fermezza da capo negoziatore Brexit ha imposto fin da subito a Londra le prerogative dei 27 Stati Ue, compresa la clausola del backstop che ha mandato in tilt la democrazia di Sua Maestà. Nei prossimi cinque anni Michel Barnier potrebbe essere l’uomo che deciderà i destini dei 500 milioni di cittadini europei, anche se la maggioranza di loro non lo ha mai sentito nominare. Questo 68enne francese originario della Savoia sperava di arrivare prima alla presidenza della Commissione europea, ma nel 2014 è stato scalzato dall’amico Jean-Claude Juncker che come risarcimento gli ha dato il palcoscenico perfetto per la sua riscossa personale. Ora che Barnier non ha più una Brexit da negoziare, gli rimane una fitta rete di relazioni europee costruita in una carriera politica lunga quarant’anni in cui è stato più volte ministro del governo francese, consigliere personale di Nicolas Sarkozy e commissario Ue all’agricoltura. E ora, dopo aver perso un giro politico può prendersi la sua rivincita sfruttando la voglia di incidere del presidente francese Emmanuel Macron e l’insipida mediocrità del suo principale sfidante: Manfred Weber, il candidato del Ppe alla Commissione.
Nell’ultimo Consiglio europeo del nove maggio a Sibiu, in Romania, i 27 leader europei hanno fatto capire non terranno conto dei nomi scelti dai principali eurogruppi europei. E tanti saluti al metodo dello Spitzenkandidaten con buona pace dei cittadini europei che non hanno neanche fatto in tempo a capire chi sono i candidati presentati dai socialisti, popolari, verdi, conservatori e liberali europei. A prendere l’iniziativa è stato il presidente francese Emmanuel Macron che ha definito i vari Weber e Timmermans dei «candidati tecnici» aggiungendo che si batterà per avere «il miglior candidato, coerente con ambizioni europee forti, persone capaci, che porteranno valore aggiunto al progetto europeo». Tradotto un nome tipo Michel Barnier, che ha tre qualità rispetto ai suoi avversari. Primo: è francese, e dal 2004 il presidente della Commissione non viene da un Paese “grande”. L’ultimo è stato Romano Prodi che ha guidato il processo di allargamento a Est. Secondo: si è dimostrato un leader affidabile per i leader del Consiglio europeo che non lo conoscevano e ha gestito con la giusta fermezza il negoziato Brexit, condividendo con Macron l’idea di far uscire il prima possibile il Regno Unito dall’Unione. Ma questo potrebbe essere il suo più grande limite per quei Paesi, Lussemburgo, Olanda e Irlanda che vorrebbero per sempre Londra nell’Ue. Terzo: è il perfetto candidato del compromesso nel caso di un arrivo testa a testa tra i socialisti e popolari. L’Italia, come avevamo previsto, è rimasta a guardare, ed è stata coinvolta in un breve incontro interlocutorio più per garbo personale e istituzionale che per strategia. Tanto che il presidente del Consiglio Conte ha dovuto dichiarare: «L’Italia vuole recitare il ruolo che le spetta», ma la sensazione è che Macron si muoverebbe per Barnier anche con un rifiuto italiano.
A preparare il terreno è stato lo stesso negoziatore della Brexit tra discorsi sul futuro dell’Europa e una serie di colloqui fatti nelle ultime settimane con i leader europei, l’ultimo in ordine di tempo è stato il premier croato Andrej Plenković, non a caso l’ultimo Stato a entrare nell’Ue con cui Barnier non ha avuto modo di stringere tanti rapporti in questi anni. Il discorso che ha fatto pochi giorni fa a Monaco di Baviera è quello di un candidato in pectore. Politico ne riporta la frase più significativa: «Siamo diventati spettatori del nostro futuro, del nostro stesso destino. E io non sono entrato in politica per essere uno spettatore. Dobbiamo essere attori». Parole d’ordine di un candidato alla commissione più che di un ex negoziatore e molto simili a quelle scritte da Macron nel suo manifesto del Rinascimento europeo.
Taciturno, metodico, trasparente. Sono queste le qualità che nei corridoi della Commissione i funzionari riconoscono a Barnier. Nei 18 mesi di negoziati con il Regno Unito ha sempre tenuto informati tutti e 27 leader europei visitando almeno tre volte ciascuna capitale. A Bruxelles i suoi sostenitori dicono che sarebbe un ottimo direttore d’orchestra, un presidente in grado di creare una rete dal basso piuttosto che un presidente accentratore che impone le scelte dall’alto
A gennaio anche Barnier ha lanciato il suo manifesto politico basato su quattro punti tra cui la protezione delle frontiere, l’aumento del budget per la difesa, e più tasse ai giganti del web, fino al piano ambientalista in cui propone di sostenere la finanza verde e scoraggiare l’obsolescenza programmata dei prodotti tecnologici. Il suo non è un ambientalismo di facciata. Barnier ha sempre sostenuto una ecologia concreta e umanistica fin dal 1973, quando a 22 anni anni entrò a far parte del gabinetto del ministro dell’ambiente, Robert Poujade. Da ministro, nel 1995, ha fatto approvare una legge per la prevenzione contro i rischi naturali e ha creato la prima “Commissione nazionale di dibattito pubblico”, per far valutare ai cittadini i principali progetti infrastrutturali. Oltre ai temi Barnier propone un nuovo atteggiamento della Commissione. «Per affrontare le sfide dell’Europa occorrerà coraggio politico a livello nazionale e comunitario. Ma richiederà anche trasparenza, dibattiti sul campo (e non solo nelle capitali), leader efficaci e responsabili e nuovi modi di coinvolgere i cittadini. Solo allora le persone crederanno veramente che l’Europa è il futuro, non solo un pio desiderio».
Neanche a farlo apposta, da quando è nato, Michel Barnier sembra destinato a questo ruolo. Il suo curriculum politico è fatto di date simboliche, record precoci, fallimenti clamorosi e risalite, tutte esperienze legate al progetto europeo. Nasce nel 1951, l’anno in cui è stata fondata la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) l’embrione dell’Unione europea che conosciamo oggi. A quattordici anni entra nel Rassemblement pour la République, il partito fondato dall’ex presidente della Repubblica Jacques Chirac sulle ceneri del partito di Charles De Gaulle. Il suo primo discorso politico lo fa a 14 anni, nel 1966 colpito dalla stretta di mano tra De Gaulle e il cancelliere tedesco Konrad Adenauer che avevano placato le tensioni tra Francia e Germania dopo la crisi della sedia vuota. Il negoziatore Brexit ha votato per la prima volta nel 1972, a 19 anni, quando partecipò al referendum per accettare il Regno Unito nell’Unione europea. A 27 anni è diventato il più giovane parlamentare della storia della Repubblica francese. Figlio di un proprietario di una piccola gioielleria, Jean, e di un’attivista sociale della sinistra cattolica, Denise, Michel da buon “Montagnard”, così come chiamano i francesi cresciuti alle pendici delle Alpi, vive la sua vita politica fino agli anni Novanta nella sua Savoia dove raggiunge l’apice presiedendo il Comitato Organizzatore dei Giochi Olimpici Invernali del 1992 ad Albertville. Dopo ventisette anni le infrastrutture ancora funzionano. Poi arriva il salto nella politica nazionale ed europea. Quattro volte ministro: dell’ambiente sotto Mitterrand, Affari europei e Affari esteri sotto Chirac, Agricoltura sotto Sarkozy, è stato due volte commissario europeo, la prima volta dal 1999 al 2004, agli affari regionali sotto la presidenza Prodi.
La prima sconfitta politica avviene al suo apice. Divenuto ministro degli Esteri per gestire l’implementazione della costituzione europea, fu estromesso nel 2005, quando la Francia votò contro al referendum per ratificarla. Fu preso come capro espiatorio per il suo europeismo e per aver annunciato la vittoria, fu estromesso dal governo francese e per due anni rimase fuori dai giochi. L’ironia della sorte è che è stato proprio il Regno Unito l’artefice della sua prima rinascita politica. Nel 2008 punta sul cavallo vincente e diventa il consigliere personale dell’allora presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy che lo propone come commissario europeo due anni dopo. Nel 2010 viene nominato da Juan Manuel Barroso come commissario europeo per il mercato interno e si occupa della bonifica del settore dei servizi finanziari in Europa e si occupa di una riforma per rendere più stringenti i regolamenti finanziari che evitassero una crisi simile a quella del 2008. La sua riforma piacque così poco agli inglesi che il Telegraph lo definì: l’uomo più pericoloso d’Europa. Un soprannome che ha confermato anche durante il negoziato Brexit.
Taciturno, metodico, trasparente. Sono queste le qualità che nei corridoi della Commissione i funzionari riconoscono a Barnier. Nei 18 mesi di negoziati con il Regno Unito il savoiardo ha sempre tenuto informati tutti e 27 leader europei visitando almeno tre volte ciascuna capitale. Così come tanti sono stati gli incontri di lavoro della sua “Task Force 50” (dall’articolo 50 dei trattati che ha usato il Regno Unito per dichiarare l’uscita), formata da 55 persone al quinto piano dell’ala di Carlo Magno, nella sede della Commissione europea a Strasburgo. E proprio tra i corridoi del Berlaymont, i suoi sostenitori dicono che sarebbe un ottimo direttore d’orchestra, un presidente in grado di creare una rete dal basso piuttosto che un presidente accentratore che impone le scelte dall’alto. Un metodo che ha conquistato tutti, anche i suoi oppositori. Lo stesso Nigel Farage ha ammesso: «speravo che lei fosse dalla nostra parte perché il negoziato l’ha vinto lei, gioco partita incontro. Questo è il peggior accordo possibile per noi».