Se cerchiamo su Google “Santer Ipcc”, non verremo indirizzati subito agli studi realizzati all’Intergovernmental panel on climate change da Ben Santer, lo scienziato che più di ogni altro ha dimostrato come il cambiamento climatico sia collegato alle emissioni prodotte dalle attività umane. No, Google ci mostrerà prima di tutto la galassia di articoli che riprendono invece le accuse mosse negli anni contro Santer. E tutto grazie a quella che nel libro Merchants of Doubts di Naomi Oreskes ed Erik M. Conway viene definita come la “strategia del tabacco”. Ovvero: gli stessi scienziati coinvolti nel programma organizzato dall’industria del tabacco per screditare le evidenze scientifiche che collegano le sigarette al cancro sono tra i protagonisti della corrente negazionista sul riscaldamento globale e i cambiamenti climatici. Che dall’inizio degli anni Novanta è arrivata fino ad oggi, utilizzando le stesse tattiche di Big Tobacco e trovando nel presidente americano Donald Trump il suo più alto esponente attuale. Nel caso del clima, però alle spalle non c’è Big Tobacco, ma le grandi industrie petrolifere.
La strategia però è la stessa usata anche contro un lungo elenco di emergenze come l’asbesto, il fumo passivo, le piogge acide e il buco dell’ozono. Il bersaglio resta la scienza. E per sparare nel mucchio e seminare disinformazione vengono usati scienziati ritenuti autorevoli, pronti a mettersi al servizio delle aziende. Secondo un report della ong britannica “Influence Map”, solo nei tre anni successivi all’accordo di Parigi sul clima, le cinque più grandi compagnie petrolifere al mondo – ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Chevron, BP e Total – hanno investito più di 1 miliardo di dollari per finziare campagne di branding e attività di lobbying per screditare l’emergenza climatica.
E dagli archivi interni delle big del petrolio sono venuti fuori i documenti di decenni e decenni di disinformazione legata agli effetti delle emissioni. In un report della “Union of Concerned Scientists”, sono raccolti i file riservati di aziende e associazioni di produttori petroliferi che mostrano per la prima volta come per almeno tre decenni le maggiori compagnie abbiano lavorato per distorcere e delegittimare le scoperte scientifiche sul clima, manipolare l’opinione pubblica e fermare le politiche ambientaliste dei governi di tutto il mondo. Dall’inizio degli anni Novanta, mentre venivano fuori le prime evidenze scientifiche sull’impatto e le cause del cambiamento climatico, l’industria del petrolio avrebbe cominciato a investire in vere e proprie campagne di disinformazione. E dai documenti pubblicati tra il 2014 e il 2015, “è chiaro che la campagna di inganno sul riscaldamento globale continua fino ad oggi”, spiegano gli scienziati.
I nomi da cui partire – raccontati in Merchants of Doubts – sono quelli di due fisici americani, entrambi di nome Fred: Frederick Seitz e S. (Siegfried) Fred Singer. Seitz, morto nel 2008, è stato un fisico dello stato solido che ha contribuito alla costruzione della bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale, diventando poi presidente della US National Academy of Sciences. Anche il 94enne Singer è un fisico, che nella sua carriera ha ricoperto ruoli di primo piano nello sviluppo dei satelliti per l’osservazione terrestre: fu direttore del National Weather Satellite Service, e poi dirigente scientifico del Department of Transportation dell’amministrazione Reagan. Insomma, due pilastri della scienza a stelle e strisce del secondo dopoguerra. Ma anche due “falchi” anticomunisti, ossessionati dalla minaccia dell’Unione Sovietica e dalla necessità di difendere gli Stati Uniti. Entrambi, non a caso, sono stati soci del George C. Marshall Institute, think tank conservatore di Washington, fondato per sostenere la Strategic Defense Initiative voluta da Reagan e conosciuta come “Star Wars”. A loro, nel gruppo dei nomi da ricordare, si aggiunge quello di Robert Jastrow, astrofisico scomparso nel 2008, molto noto al pubblico come direttore del Giss (Goddard Institute of Space Studies), che partecipò ai programmi spaziali e che con Seitz e Singer formò quella che venne definita “the denial machine”, la macchina dei negazionisti. Che nel 1998 si riunì al completo, come raccontò anni dopo Newsweek, insieme ai vertici di ExxonMobil nel quartier generale dell’American Petroleum Institute di Washington.
Il trio di scienziati, insieme a un manipolo di altri pseudo esperti, cooperò con think tank e corporation private, screditando a suon di contro-ricerche, le evidenze scientifiche su vari argomenti di attualità. Negli anni Ottanta la maggior parte del denaro proveniva dall’industria del tabacco. Poi arrivarono i fiumi di finanziamenti dell’industria dei combustibili fossili. Singer e gli altri sostenevano che il legame tra fumo e cancro non fosse provato, obiettavano che le piogge acide fossero causate dai vulcani e non dall’inquinamento, idem per il buco dell’ozono. Accusavano la Epa di aver alterato i dati sul fumo passivo. E di fronte alle prove scientifiche sul riscaldamento del pianeta, arrivarono a sostenere che il global warming non fosse reale. Prima dicendo che non esisteva, poi che si trattava di una normale variazione naturale, e infine che, se anche ci fosse e fosse stato causato da noi, non ci sarebbe da preoccuparsi in quanto potremmo facilmente adattarci.
Una ricerca dopo l’altra, negarono senza sosta l’esistenza di un sostanziale consenso a livello scientifico sull’emergenza climatica, senza fornire valide argomentazioni scientifiche ma semplicemente sminuendo e distorcendo le scoperte altrui.
Ma se i loro studi fossero rimasti solo nelle segrete stanze della “denial machine”, non saremmo qui a raccontarlo. Il problema è che, trattandosi di scienziati noti, vennero ascoltati. E anche tanto. Nel 1989, quando Seitz scrisse uno dei tanti rapporti in cui si mettevano in dubbio le evidenze del riscaldamento globale, venne immediatamente invitato alla Casa Bianca per riferire all’amministrazione Bush. Come viene fuori da diversi leak, la ExxonMobil, in particolare, ebbe grande influenza sulla Casa Bianca guidata da George W. Bush per bloccare le politiche federali e manipolare la comunicazione governativa sul global warming.
Non solo. Testate prestigiose come il New York Times, il Washington Post, Newsweek e molte altre finirono in trappola, riportando affermazioni e ricerche della “lobby degli scienziati contro il clima” come se fossero espressioni di un punto di vista diverso nel dibattito scientifico in corso. Punti di vista che poi, ripetuti più e più volte da persone impegnate in pubblici dibattiti, blogger, senatori degli Stati Uniti, oltre che dal presidente e dal vice presidente, continuano a circolare e a fare breccia nell’opinione pubblica. Nessuno capì che non si trattava di un dibattito scientifico, come quelli che si svolgono nelle università fra ricercatori impegnati su questi temi, ma era il prodotto di una strategia di disinformazione cominciata con il tabacco e replicata con il clima.
Il primo rapporto americano sull’impatto del riscaldamento atmosferico causato dalla crescita dell’anidride carbonica atmosferica risale al 1965. E nel 1988 lo scienziato James E. Hansen, direttore del Goddard Institute of Space Studies, provò per la prima volta che il cambiamento climatico prodotto dall’uomo aveva avuto inizio con un aumento di temperatura media globale di circa un grado Fahrenheit. Eppure nel 2007, a distanza di quasi 30 anni, il 40% degli americani riteneva ancora che gli scienziati avessero dei dubbi sulla reale esistenza del riscaldamento globale.
Dopo la pubblicazione delle scoperte di Hansen, la strategie della “denial machine” fu addirittura quella di incolpare il Sole per il riscaldamento del pianeta. Fecero circolare e pubblicare un libro bianco dal titolo: “Riscaldamento Globale: che cosa ci dice la scienza?”. Rifacendosi alla strategia dell’industria del tabacco, affermavano che avrebbero ricondotto la questione del riscaldamento globale nei suoi “giusti limiti”. Il problema è che Seitz e colleghi avevano scelto i dati uno per uno, prendendo un solo diagramma di quelli pubblicati da Hansen, in modo che apparisse che solamente il Sole contava qualcosa tra le possibili cause. Nessun riferimento, ovviamente, alle emissioni umane prodotte dai combustibili fossili.
Qualche anno dopo, nel 1995, quando Ben Santer presentò i risultati dei suoi studi sul clima nel primo giorno di sessione plenaria dell’Ipcc, si capì subito che l’industria petrolifera non avrebbe gradito affatto. I delegati di Arabia Saudita e Kuwait fecero immediata opposizione, coalizzandosi poi con i rappresentanti di altri Stati petroliferi. La tensione, si racconta nel libro di Naomi Oreskes ed Erik M. Conway, ruotava tutta attorno a una frase, anzi attorno a un singolo aggettivo: “L’insieme delle evidenze suggerisce che esiste una [spazio bianco] influenza umana sul clima globale”. Alla fine, dopo un pomeriggio di discussioni, l’aggettivo scelto fu “discernibile”. Preferito ad “apprezzabile”.
Ma nonostante i “ritocchi estetici”, non si perse tempo per attaccare gli studi dell’Ipcc. I dati da satellite, si scrisse, mostravano “assenza di riscaldamento, e addirittura una leggera tendenza al raffreddamento”. Per affermare poi che i modelli climatici sul riscaldamento erano errati, senza alcuna prova circa l’apporto delle attività umane. “È un mistero come taluni insistano nel fare di un problema una crisi o una catastrofe − addirittura la sfida globale più grande alla quale è chiamato il genere umano”, scrisse Fred Singer.
Tra le corporation più attive nella contro-narrazione, ci sarebbe stata la ExxonMobil. Solo tra il 1998 e il 2005, spese 16 milioni di dollari – secondo quanto riporta la Union of Concerned Scientists – per finanziare organizzazioni scientifiche per realizzare ricerche contrarie sul clima. Tra gli istituti finanziati, compare anche l’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics: la compagnia avrebbe pagato 1,2 milioni allo scienziato Wei-Hock (“Willie”) Soon, che pubblicò i suoi risultati come se fossero indipendenti, senza mai rendere pubblico il fatto che i suoi studi fossero in realtà finanziati dalla Exxon.
Posizioni che dai paper scientifici si spostano poi, anno dopo anno, nelle stanze della politica. Nel 1995, Dana Rohrabacher, membro Repubblicano del Congresso, propose una legge per ridurre i fondi per la ricerca sul clima di oltre un terzo , definendola come “scienza alla moda sostenuta da politici liberal-di sinistra, piuttosto che buona scienza”. Nel luglio 2003, il senatore Repubblicano James Inhofe definì il riscaldamento globale “la più grande truffa commessa nei confronti del popolo americano”. Nel 2007, il vicepresidente Richard Cheney in un’intervista televisiva disse: “Non sembra esserci accordo, o comincia a esserci incertezza, sul fatto che il riscaldamento sia parte di un ciclo naturale anziché essere causato dall’uomo”.
Finché, nell’ottobre del 2018, Donald Trump in un’intervista alla Cbs dichiarò di dubitare che il riscaldamento del pianeta fosse causato dalle attività umane e accusò addirittura gli scienziati del clima di avere un “programma politico”. Intanto, nel febbraio del 2017, altri scienziati si erano mossi per sostenere la causa di The Donald: 300 (sedicenti) esperti guidati dal climatologo del Mit Richard Lindzen scrissero una lettera al tycoon con l’intenzione di offrire una cornice autorevole allo scetticismo della sua amministrazione e sostenere quindi il rifiuto degli accordi di Parigi.
La “strategia del tabacco”, insomma, è andata avanti. E mentre ci sono aziende del petrolio che a voce dichiarano di supportare le politiche di taglio delle emissioni, facendosi promotrici di progetti di eco e biofuel, allo stesso tempo continuano a foraggiano gruppi e lobby che contrastano le scoperte scientifiche sul clima e le politiche ecologiste. Eugene Linden, ex reporter del Time, raccontò nel suo libro Winds Of Change come all’inizio degli anni Novanta i media “si trovarono a essere assediati da esperti che scambiavano la diffidenza scientifica con l’incertezza scientifica, e che inviavano lettere infuocate agli editori quando un servizio non includeva anche il loro dissenso”.
Nessuno capì che quelle posizioni arrivavano quasi tutte dalla stessa parte: su 52 libri sullo “scetticismo ambientale” pubblicati negli anni Novanta, il 92% era collegato a fondazioni e think thank di destra e affini. La strategia chiave impiegata per diffondere il dubbio consisteva nel far apparire i propri proclami come affermazioni scientifiche. Non a caso, l’industria del tabacco creò il Tobacco Institute allo scopo ufficiale di alimentare la ricerca. Ma l’obiettivo, davanti alle evidenze scientifiche catastrofiche che loro stessi conoscevano, come mostrano i documenti, era ed è quella di “mantenere aperta la controversia” e “tenere il dibattito aperto”, alimentando obiezioni che vanno contro la mole delle evidenze disponibili.
Lo storico Robert Proctor ha documentato la creazione di periodici e riviste scientifiche − comprese riviste apparentemente peer review − nelle quali i risultati delle ricerche sponsorizzate dall’industria petrolifera potessero essere riportati, pubblicati e quindi citati come se si trattasse di lavori indipendenti. Il risultato è che ancora oggi il “Global Warming Petition Project” lanciato da Fred Seitz contro il protocollo di Kyoto si trova online. Fred Seitz è morto, ma la sua petiziione è ancora viva e vegeta su Internet: sul sito si legge che è stata firmata da “31.487 scienziati americani, inclusi 9.029 con un PhD”. Il principale sponsor della petizione fu un misconosciuto istituto scientifico americano, l’Oregon Institute of Science and Medicine. Che altro non è che una piccola organizzazione composta da pochi scienziati impegnati, anche, nel promuovere lo scetticismo sul riscaldamento globale. Tra gli altri servizi offerti: la vendita di un kit per l’home-schooling rivolto ai “genitori preoccupati per la diffusione del socialismo nelle scuole”, oltre che di vari libri su come sopravvivere alla guerra nucleare.