I due tweet con i quali Donald Trump ha messo a terra le borse mondiali sono semplici, efficaci e bugiardi. È nella natura dei tweet, direte voi lettori. Forse, certo lo è per quelli trumpiani. Eccoli qua. Primo tweet: «Per 10 mesi, la Cina ha pagato dazi del 25% su 50 miliardi di dollari di prodotti high-tech e del 10% su altre merci per 200 miliardi. Questi pagamenti sono parzialmente responsabili per i nostri grandi risultati economici. Il 10% salirà al 25% venerdì prossimo». Secondo tweet: «325 miliardi di dollari di altri prodotti cinesi inviati negli Usa restano non tassati, ma lo saranno presto, al 25%. Il negoziato per l’accordo commerciale con la Cina continua, ma troppo a rilento, mentre loro cercano di ritrattare. No!».
Sono minacce perché finora nessuna decisione concreta è stata presa. E non hanno interrotto il viaggio dei negoziatori cinesi verso Washington. Viaggio lento, certo, com’è nella natura di un paese che è registrato sul lungo periodo. Dunque potremmo dire che si tratta di un’altra sparata, di un bluff, del mercanteggiamento che un uomo d’affari diventato comandante in capo del paese più potente del mondo ha adottato come propria tattica. Se gli storici in un prossimo futuro parleranno di dottrina Trump dovranno guardare al paradigma suk, non solo alla demagogia da social media. Eppure i mercati finanziari ieri hanno tremato davvero. Come mai?
Si tratta di un’altra sparata, di un bluff, del mercanteggiamento che un uomo d’affari diventato comandante in capo del paese più potente del mondo ha adottato come propria tattica. Se gli storici in un prossimo futuro parleranno di dottrina Trump dovranno guardare al paradigma suk, non solo alla demagogia da social media
Vediamo innanzitutto dove sono le fake news. La frottola più eclatante è che i dazi e le tariffe introdotti finora siano responsabili (più o meno parzialmente), di questo boom americano che sta sorprendendo tutti i congiunturalisti (crescita oltre il 3% in termini reali, disoccupazione ai minimi da 49 anni e scusate se è poco). Un anno fa si diceva che miracolosi erano stati i tagli fiscali, oggi è il protezionismo. Nel primo caso Robert Barro uno dei maggiori economisti americani, mercatista, e Jason Furman un liberal che era stato consigliere capo di Barack Obama, hanno condotto uno studio bipartisan il cui risultato è che la riforma fiscale introdotta nel 2017 ha contribuito per lo 0,9%alla crescita nel 2018 con un trascinamento fino a quest’anno. Niente male, ma è un terzo. E il resto? Il resto viene dall’aumento della produttività. La Macroeconomic Advisers che si è sempre distinta per le più accurate analisi congiunturali, calcola che la produttività è salita del 2,3% rispetto allo stesso periodo del 2018. Se le stime sono corrette, sarebbe il risultato migliore dal 2010 quando la economia stava rimbalzando dopo la lunga e profonda recessione dei due anni precedenti. Tra il 2010 e il 2017 la produttività era cresciuta in media dell’un per cento l’anno, ciò significa che l’economia americana è in piena accelerazione.
Ma se Trump non dice il vero allora perché i mercati lo hanno preso sul serio? Perché il neo-protezionismo, per quanto parziale, imperfetto e per lo più annunciato, ha già prodotto effetti pesantemente negativi, non tanto sulla Cina quanto sui paesi più industrializzati, l’Europa e lo stesso Nord America. Il Financial Times ha pubblicato un gran bel reportage dallo Iowa, uno stato tra i maggiori produttori di semi di soia che vengono esportati in tutto il mondo a cominciare dalla Cina, perché l’Estremo oriente in genere consuma più soia di quanto produca e si rifornisce dalle Americhe. L’export rappresenta solo un terzo della produzione per i farmers dello Iowa, ma le tariffe sono state sufficienti a mettere in ginocchio l’economia dello Stato. Quanto alla Cina, si rifornisce dal Brasile e dall’Argentina che oggi sono i maggiori esportatori mondiali di soia. Anche loro hanno rincarato i prezzi per inseguire gli statunitensi, ma non si può dire che ci sia scarsità.
Perché l’opposizione Dem non cavalca una vera campagna anti-protezionista? Dicono i democratici: “Tutti sanno che dazi e tariffe fanno schifo, ma bisogna essere duri con la Cina”. Il paradosso è che finora Washington ha picchiato Pechino, ma ha colpito i suoi alleati e gli stessi Stati Uniti
Se le cose stanno così, perché l’opposizione Dem non cavalca una vera campagna anti-protezionista? Se lo chiedono anche molti agricoltori, scrive il Financial Times, che avevano votato Trump e oggi voterebbero volentieri un Democrat anti-.tariffe. La spiegazione è politica, anzi geo-politica. “Facile a dirsi”, spiegano gli strateghi democratici, “tutti sanno che dazi e tariffe fanno schifo, ma bisogna essere duri con la Cina”. Il paradosso è che finora Washington ha picchiato Pechino, ma ha colpito i suoi alleati e gli stessi Stati Uniti.
Trump, come per la verità la maggior parte dell’Occidente, usa la boxe per contrastare i cinesi i quali invece padroneggiano alla perfezione le arti marziali, le quali sono chiaramente più efficaci – sostiene Kerry Brown, ex diplomatico britannico, professore di Chinese studies e direttore del Lau China Institute at Kings College di Londra. Non solo. La Cina ha un enorme mercato interno e l’attuale strategia di Xi Jinping (finora riuscita solo in parte) consiste nel riconvertire l’economia in senso domestico pur senza perdere la sua forza espansiva e per questo serve la “nuova della seta”, la Belt and Road Initiative. Il governo ha varato una serie di stimoli domestici che hanno bilanciato l’impatto negativo del commercio estero. Si è visto, così, che dopo un primo choc seguito alle sanzioni l’anno scorso, la crescita è ripresa a un buon passo (6,4% nel primo trimestre), doppio rispetto a quello americano e almeno triplo rispetto a quello europeo. Ciò non vuol dire che i dazi siano punture di spillo, ma per piegare il dragone ci vorrebbe molto di più, il che metterebbe a terra le stesse economie occidentali. Insomma una strategia suicida.
L’ Europa, con un mercato interno ricco, saturo e stagnante, dipende dalle esportazioni, è chiaro che diventa la prima vittima del protezionismo
La bilancia estera degli Usa è ancora passiva per il 2,6% del pil e non ha dato segni di migliorare nell’ultimo anno, del resto gli Stati Uniti consumano più di quel che producono. La bilancia cinese invece è attiva, ma solo per lo 0,2% quindi c’è stato un netto ridimensionamento segnale chiaro della conversione domestica dell’economia. È l’area Euro a mostrare un surplus nettamente più ampio, pari al 3,2% del pil con l’Olanda al 9,9, la Germania al 6,6 e l’Italia al 2,5 per cento.
L’ Europa, con un mercato interno ricco, saturo e stagnante, dipende dalle esportazioni, è chiaro che diventa la prima vittima del protezionismo. È questo che vuole il presidente americano? Probabilmente no, o meglio non del tutto; ma vuole certamente dare una sonora sberla a una Unione europea che non ama e a paesi come la Germania che considera recalcitranti se non proprio ribelli. Un ceffone economico, dopo quello militare inferto in sede Nato chiedendo (e su questo ha ragione) che i paesi europei contribuiscano di più alla difesa comune.
C’è un altro motivo di profonda irritazione che riguarda l’intero establishment americano, non solo l’attuale amministrazione, e ha a che fare con la sicurezza da un lato e con il primato tecnologico dall’altro. Per gli Usa sono due facce della stessa medaglia. E questo gli europei non lo vogliono ammettere. Il braccio di ferro sul 5G e sul ruolo di Huawei è diventato un vero e proprio casus belli tra le due sponde dell’Atlantico, con Gran Bretagna, Germania e Italia che non intendono seguire il veto Usa al colosso dei telefonini. Anche questo pesa sul giudizio degli gnomi che manovrano i nostri soldi. Una guerra commerciale sarebbe pessima, una guerra tecnologica sarebbe guerra tout court, e nemmeno condotta con altri mezzi. Di qui l’allarme per quel che sta accadendo e quel che potrebbe accadere in futuro. Ecco perché s’è riaffacciato l’orso a Wall Street dove il toro finora l’ha fatta da padrone.