Da tempo aspettavamo il suo ritorno sulla scena letteraria. Ogni volta che Patrizia Valduga pubblica un libro si tratta sempre di un’opera in grande stile che, nel bene o nel male, segnerà la poesia italiana. Lei è una delle poche a riuscirci, a marcare un punto fermo in questo sempre sfuggente e inafferrabile panorama. Non parlarne sarebbe stato impossibile, come rifiutarsi di assistere a una delle sue letture pubbliche in cui frotte di persone si radunano quasi si trattasse di un evento religioso. E così, dopo sette anni di silenzio, ecco arrivare Belluno, sempre per Einaudi, ma questa volta in un volume fuori collana, invece che nella ‘Bianca’ che fino a oggi aveva ospitato i suoi lavori. Il testo, che ha la forma di una raccolta di quartine – come sappiamo tanto care alla poetessa –, presenta come ogni scritto uscito dalla penna della Valduga aspetti insoliti che abbiamo voluto indagare interrogando l’autrice stessa.
Cominciamo dalla faccenda del titolo. Mi pare che il libro, al netto di una incontestabile unità stilistica generale, affronti diversi argomenti. Perché concentrare questo magma tematico sotto il nome di una città, Belluno?
Si intitola Belluno perché è stato scritto a Belluno, dove ho vissuto dai sette ai ventotto anni, perché racconta le mie giornate estive bellunesi e racconta, soprattutto, le montagne bellunesi, che conosco solo da lontano, che vedo dalla mia finestra. I loro nomi diventano una sorta di filastrocca apotropaica, una litania, qualcosa di sacro e protettivo.
Vorrei parlare di questa abbondanza di riferimenti, dal Dreyer di La parola a Flaubert, passando per Da Ponte. Il tuo editore scrive in quarta di copertina che in molti dei personaggi citati è Raboni che si “sdoppia” e “risdoppia”. Potresti spiegarmi meglio questo concetto?
Johannes, Don Giovanni, Giovanni… Mi vengono in mente dei versi di Raboni: «Johannes fuit hic» e «In nessun luogo, mai, tanti Giovanni». Mi rendo conto adesso di averlo citato, e di aver quasi tradotto il primo verso, nella quartina di p. 33: «Questa piazza piaceva anche a Giovanni», e poi «È stato qui»: fuit hic. Forse Johannes e Don Giovanni, entrambi molto amati da Raboni – intendo Dreyer e Mozart-Da Ponte – sono venuti come emissari in mio soccorso: il primo a resuscitarmi, il secondo a farmi un po’ di compagnia, e anche a prendermi un po’ in giro.
Spesso citi il tuo nome nei versi: non è vagamente azzardato? Entrando a gamba tesa tra le righe non si finisce per dipingersi come dei personaggi?
Cosa vuole dire “tra le righe”? Io vorrei proprio sapere perché si chiede solo a me un certificato di autenticità della mia poesia. Ma la verità in poesia non esiste se non in senso estetico! Ti ricordi quel sonetto di Vallejo in cui dice: “César Vallejo ha muerto, le pegaban / todos sinqueélleshaganada»? «César Vallejo è morto, lo picchiavano / tutti senza che lui facesse niente”. Non sarebbe da cretini domandarsi: come fa a dire che è morto se sta scrivendo? e davvero lo picchiavano? Questo sonetto è bellissimo, e perciò è vero.