Il quartier generale di Google a Bruxelles è lontano solo cento metri, anche se non riusciamo a vedere il palazzo attraverso le grandi vetrate del caffè Grand Central, in rue Belliard. Siamo nell’ombelico del quartiere Ue, bastano tre minuti per raggiungere la sede dell’Europarlamento e della Commissione europea, e il dubbio è che Margrethe Vestager non abbia scelto il luogo di questa intervista solo per comodità. Perché da quando nel 2014 è stata nominata commissaria europea alla concorrenza, questa danese liberale è diventata l’incubo dei giganti della Rete. In cinque anni ha multato per oltre 23 miliardi di euro Apple, Amazon e Google (l’ultima a inizio marzo: 1,49 miliardi di sanzione al colosso di Mountain View) per aver violato le regole della concorrenza nel mercato unico europeo. E lo ha fatto con il rigore tipico di una figlia di pastori luterani, cresciuta a bibbia e politica a Ølgod, un piccolo borgo nella campagna occidentale danese. La sua ossessione è proteggere i consumatori europei, l’ambizione è diventare la prima presidente donna della Commissione Ue. Non sarà facile. Ordina un tè nero «Non riesco più a bere caffè, ho smesso di colpo un mese fa». Ma non tocca quasi mai la bevanda, la sorseggia solo due volte nel corso dell’intervista: quando parliamo di Cina e di migranti. A volte, quando si è in campagna elettorale, servono secondi preziosi per calibrare le risposte.
Vestager, è un caso che siamo a pochi metri dalla sede di Google?
Forse (sorride), ci stiamo avvicinando sempre di più per ridurre le distanze.
Lei è intervenuta più volte per sanzionare i comportamenti scorretti di Google, Amazon e Apple nel mercato comune europeo. Quanta pressione ha ricevuto in questi anni per desistere?
Meno di quanto immagina. Forse perché vedo pochissimi lobbisti. Mi capita piuttosto di incontrare i Ceo delle aziende per chiedergli di cambiare un comportamento scorretto che stanno avendo nel mercato comune europeo o per discutere di una fusione. Con loro c’è un rapporto diverso. Certo, vedo le lobby delle compagnie tech che camminano nei corridoi del Berlaymont (la sede del Parlamento europeo a Bruxelles, ndr), ma non l’ho mai sentito come qualcosa che avrebbe reso più difficile fare il mio lavoro.
C’è stata una pressione da parte degli Stati Uniti?
Prima delle elezioni del 2016 ci sono stati alcuni contatti con la Casa Bianca durante il caso Apple, ma la pensavo in modo completamente diverso da loro. C’è stata una discussione più intensa nei casi di antitrust, più che per le problematiche legate al fisco. Ho notato un rinnovato interesse da entrambi i fronti, repubblicano e democratico su quanto ha fatto l’Unione Europea in tema di antitrust, e non solo per la proposta di Elizabeth Warren di scorporare in più parti i giganti della Rete. In molti al Congresso ammettono che qualcosa deve essere fatto anche Oltreoceano. Non credo faranno le nostre stesse scelte perché il mercato degli Stati Uniti è diverso, ma le cose stanno cambiando anche nel contesto americano a causa dello scandalo di Cambridge Analytica che ha cambiato il modo in cui la società guarda i giganti della Rete.
E ne avete approfittato.
Quello scandalo è stata una sveglia per tutti. I cittadini hanno capito che si doveva fare qualcosa per proteggerli e le istituzioni europee non hanno potuto più voltarsi dall’altra parte. Abbiamo migliorato i diritti digitali degli europei ma non solo. Abbiamo creato un mercato unico digitale che consentirà a più imprese di crescere per passare con più facilità dal garage al mercato globale aumentando allo stesso tempo i loro diritti se decidono di svilupparsi attraverso le piattaforme di e-commerce con appositi provvedimenti sulla concorrenza. Ma c’è ancora tanto da fare su questo tema.
Per esempio?
La rivoluzione industriale del digitale non è finita: sta arrivando l’intelligenza artificiale. Una sfida, ma anche un obbligo per l’Europa di assicurarsi che la tecnologia sia al servizio dell’uomo e della società, non viceversa. Per questo la Commissione sta spingendo per creare delle linee guida al fine di sviluppare l’intelligenza artificiale in modo etico. Potremmo avere l’intelligenza artificiale solo quando avremo una società imparziale, senza pregiudizi. Perché c’è un rischio molto alto che tutta l’intelligenza artificiale riproduca la società che già abbiamo. E questo non è un problema da poco.
Cosa ne pensa della digital tax?
Sono molto favorevole a far pagare le tasse alle società digitali. Il mio collega Pierre Moscovici ha calcolato il debito comparabile tra le aziende, dimostrando che quelle digitali in media pagano il 9% di imposta effettiva, una tassazione media inefficiente del 23%. Non è una concorrenza leale. Queste multinazionali dovrebbero contribuire alle società con cui fanno affari così come fanno le altre aziende. Spero che troveremo finalmente una soluzione europea per influenzare a nostra volta una soluzione globale. Ed è molto bello vedere che l’Ocse ha accelerato su questo aspetto. Purtroppo è difficile realizzare tutto ciò che abbiamo in mente in un breve periodo. Per questo capisco i singoli Stati membri che stanno decidendo di agire da soli. Il punto è che abbiamo una tassazione sulle aziende inventata centinaia di anni fa che non riesce a cogliere come oggi viene calcolato il valore. Siamo destinati a perdere le entrate statali basate sulla tassazione delle società, perché è tutto digitalizzato.
Non proprio tutte le imprese sono digitalizzate.
Ma ci arriveranno presto. Addirittura nel settore dell’agricoltura i nuovi macchinari raccoglieranno dati per capire lo stato del terreno, l’aspetto meteorologico, in che modo i semi rispondono a diversi tipi di trattamenti e in base a queste informazioni produrranno nuovi e diversi beni. Dobbiamo fare i conti con il fatto che i dati hanno e avranno sempre di più un ruolo fondamentale nella nostra economia. E la tassazione è una metrica molto importante, per questo abbiamo già presentato una proposta per creare una base imponibile consolidata corporativa comune sulla tassazione digitale.
Parla come una presidente della Commissione. Pensa di essere la persona ideale per questo ruolo? Il fatto che voi liberali dell’Alde vi presentiate con più candidati non aiuta a chiarire le idee.
Non spetta a me decidere i criteri dello spitzenkandidat. Noi liberali abbiamo presentato una candidatura multipla che fosse a metà strada tra denunciare il metodo di selezione del presidente della Commissione Ue che non ci piace e l’evitare di essere esclusi dai dibattiti in vista delle elezioni di maggio.
Non le piace l’idea che gli eurogruppi indichino i loro candidati alla presidenza?
Non è un lavoro da uomo o donna sola al comando. La commissione europea è un organo collegiale e così deve continuare a funzionare. Abbiamo due fonti di legittimità in Europa: il Parlamento eletto direttamente e i rappresentanti degli Stati membri nel Consiglio. Non è un manualetto ma la nostra storia europea: è il modo in cui ci definiamo. Il Consiglio e il Parlamento Ue devono co-decidere sempre. E non solo sui membri della Commissione, ma bisogna essere d’accordo sui fondamentali, perché sono seriamente minacciati dal nazionalismo di destra.
Quali sono questi fondamentali?
Lavorare per fermare i danni causati dal cambiamento climatico, affrontare la nuova rivoluzione industriale della tecnologia, in particolare quella digitale, combattere la sfida della disuguaglianza e recuperare le persone che si sentono escluse da questa società. Più che misurare i rapporti di forza su chi è chi a Bruxelles serve un’Europa che sia pronta a funzionare fin da subito con un’ampia coalizione nel Parlamento europeo che sia d’accordo con la direzione che vorrà prendere la Commissione europea.
Sì, ma ci dica la prima cosa che farebbe se fosse presidente della Commissione Ue.
Mi assicurerei di non essere l’unica donna al tavolo della Commissione. Bisogna avere un numero uguale di maschi e femmine tra i commissari. In questi cinque anni ho capito che non basta una donna o due per fare la differenza o le nove della Commissione Juncker. Devono essere molte di più.
Perché non più commissari donne che uomini?
Anche meglio. Il punto è avere la diversità. Ed è un bene anche per gli uomini. Perché se il gruppo è diversificato si dissolve la distinzione tra uomini e donne e si diventa più umani nel condividere la responsabilità con il presidente. Anche perché serve molto tempo per preparare, discutere, decidere e mettere in atto i provvedimenti. La Commissione deve rinnovare visibilmente il modo in cui lavora e le sue priorità per mostrare agli europei che stiamo cambiando davvero le cose.
Cosa cambierebbe?
Ci sono stati dei miglioramenti, ma ancora è difficile che i commissari lavorino veramente insieme. Ci sono delle ipocrisie e guerre interne tra noi, come in tutte le organizzazioni. Avere 27 portafogli indipendenti l’uno dall’alto non ci permetterà di affrontare le questioni più importanti. E non parlo solo dei nuovi temi ma anche attuare quanto abbiamo deciso in questo mandato.
Tipo?
Per esempio Il progetto per l’energia che abbiamo approvato nelle due settimane prima che il Parlamento europeo entrasse in campagna elettorale a cui hanno lavorato i commissari Maroš Šefčovič e Arias Cañete. Un progetto ambizioso per guidare la transizione verso le energie rinnovabili e l’efficienza energetica entro il 2030. Il Parlamento e il Consiglio lo hanno approvato. Ora tocca a noi attuarlo nei prossimi anni e inserirlo nella vita quotidiana dei cittadini europei. La vera leadership non si esercita solo facendo nuove leggi, ma anche attuandole.
Qualche rimpianto per questi anni?
Ho viaggiato molto, ma non così tanto al di fuori delle capitali europee. Quando l’ho fatto ho imparato molto. All’inizio del mio mandato nel 2014 ho chiesto alla mia squadra di non incontrare solo i vari ministri nazionali, i deputati del parlamento o le organizzazioni non governative. Volevo almeno un’ora per andare al museo nazionale per vedere la mostra d’arte locale o qualcosa di simile per avere un piccolo assaggio della dimensione culturale della nazione che stavo visitando. Arei imparato molto di più se avessi viaggiato nei luoghi meno conosciuti. Avrei potuto capire le differenze tra noi europei. Richiede molto tempo e ci vuole molta organizzazione. Ma è anche una delle cose che ti dà un senso reale dell’Europa e di cosa pensa la gente.
Le piacerebbe scoprire più l’ovest o l’est Europa?
L’Europa che conosco di meno è quella centrale e orientale. Ci sono stata molti anni fa quando ho fatto da giovane l’interrail. Sono stata a Praga e Budapest. Ma da adulta ho visto più l’Europa occidentale, oltre alla Danimarca e la Svezia. Andando a Est capirei veramente come vivono le persone. Perché viviamo vite molto diverse nel Continente. E ci penso a volte nel mio lavoro perché mi accusano di pensare troppo ai prezzi. Secondo molti l’economia di mercato è tutta una questione di innovazione e di successi. Ma in Europa sono tantissimi a vivere con con un budget limitato. Per loro è davvero importante capire se i prezzi salgono del 5 per cento o 7 per cento sull’abbonamento telefonico. Anche se gli stati membri stanno crescendo insieme e c’è una convergenza sempre maggiore, ci sono ancora enormi differenze nel modo in cui viviamo.
Forse il problema è che vivete all’interno di una bolla a Bruxelles.
Ho paura che questo sia un problema che hanno anche i media che parlano di Unione europea. I media, il Parlamento, la Commissione e i lobbisti auto-organizzandosi hanno creato un ecosistema. Ma forse l’ho sentita meno di altri questa bolla perché ho presentato una sola legge europea, quella per potenziare le autorità nazionali della concorrenza in modo che possano fare di più e essere più forti e più efficaci. Quindi non sono stata esposta alle pressioni che derivano dall’essere responsabile della preparazione di una legge.
Come si esce dalla bolla?
Dialogando con i cittadini di tutta Europa, ho parlato con oltre 1600 gruppi selezionati in cinque anni. Mi piace e penso sia il miglior modo per avere il polso reale delle esigenze delle persone.
Però in questi anni si è creata una frattura profonda tra est e ovest Ue per la questione migranti. Come crede di poterla risolvere?
È difficile perché altrimenti sarebbe stato già fatto. Bisogna creare un quadro condiviso per gestire sia la protezione dei rifugiati sia l’immigrazione in quanto tale. Perché esiste ancora una crisi dell’immigrazione. Non è urgente come lo era nel 2015, quando le persone arrivavano in numero molto elevato, ma la situazione può degenerare da un momento all’altro. In futuro i migranti arriveranno a causa dei cambiamenti climatici, delle guerre, delle persecuzioni religiose e politiche nei loro paesi. Non possiamo semplicemente pensare a soluzioni tampone che ritornano ciclicamente. Meglio avere una soluzione lenta che funzioni piuttosto che una soluzione rapida che nessuno applica. Ci vorrà molto lavoro tra gli stati membri per capire come fare per aiutarci a vicenda concordando sui fondamentali: accogliere le persone che hanno bisogno di protezione. Ma anche per dire alle persone che stanno cercando di emigrare in Europa in modi non regolamentari: “non puoi farlo”.
Salvini e Orban non la pensano come voi liberali.
Sì, ma i cittadini europei vogliono una soluzione e vogliono vedere i politici affrontare il problema senza tergiversare. L’immigrazione può servire come argomento per i dibattiti nazionali per qualche tempo ma non è sostenibile per sempre. Serve una soluzione condivisa da tutti, nessuno escluso.
Il problema centrale però è sempre quello: la distribuzione dei migranti. Come si convincono Paesi come Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia che hanno accolto pochi o nessun migrante arrivato in Italia?
Non possiamo forzare. I nostri problemi sull’immigrazione derivano proprio da quell’approccio sbagliato che abbiamo avuto con alcuni stati. La politica della maggioranza su questi temi è stata controproducente. I Paesi Ue che si sono trovati in minoranza non hanno ritenuto queste scelte legittime né democratiche. Dobbiamo capire bene come essere solidali gli uni con gli altri ma allo stesso tempo rispettare gli stati membri che la pensano diversamente.
Quindi ha sbagliato Juncker con il piano di redistribuzione?
L’ho supportato quando l’ha proposto, ma ora non so se fosse la scelta giusta. Non ha funzionato molto bene: solo 44mila persone sono state trasferite negli Stati membri. Un numero piuttosto elevato, ma non la totalità. Certo, non si può ragionare col senno di poi. Se non avessimo litigato su questo aspetto ce ne sarebbe stato sicuramente un altro. Era un’emergenza.
Ecco, l’emergenza migranti è il principale motivo dell’ascesa della Lega in Italia e partiti di ultradestra come Vox in Spagna che alle ultime elezioni ha eletto nel Parlamento nazionale più di 25 deputati. La preoccupa?
Penso che tutti dovrebbero essere preoccupati per ciò che riguarda le tendenze di estrema destra, ormai li vediamo in tutta Europa. Bisogna avere una reazione abbastanza forte a questo.
Come pensate di fermare l’ondata sovranista?
Purtroppo è difficile trovare una soluzione unica. Danimarca e Svezia hanno avuto due approcci diversi. In Danimarca c’è stata una cooperazione molto stretta tra il governo liberale e il partito di destra. Risultato? Sono nati altri due partiti di estrema destra. In Svezia invece non c’è stata una cooperazione con i nazionalisti e il partito di estrema destra è cresciuto comunque. L’unico modo per contrastare questo fenomeno è tornare ai fondamentali. Nel nuovo Parlamento europeo avremo l’obbligo di lavorare a stretto contatto con forze diverse di centro e sinistra per salvare almeno i fondamenti della nostra società che sono minacciati: lo stato di diritto, la libertà di stampa, l’uguaglianza tra generi. Tre questioni ovvie, ma su cui sarà molto importante essere d’accordo.
In Italia il Movimento Cinque Stelle ha proposto di introdurre il salario minimo europeo. La stessa proposta fatta pochi giorni prima dal vostro alleato Emmanuel Macron nel suo manifesto sul Rinascimento dell’Unione europea. Pensa sia fattibile?
Il problema è come renderlo attuabile in tutti i Paesi Ue così diversi tra loro. Perché anche se stiamo crescendo e ci avviciniamo l’un l’altro ci sono ancora enormi differenze. L’importante è avere un mercato che consenta di guadagnare un salario e un lavoro a tempo pieno che permette di avere una vita. È preoccupante che chi ha un impiego a tempo pieno non riesca ad arrivare a fine mese. Ma negli ultimi dieci anni è aumentata la disuguaglianza in Europa e dovremo affrontare il tema in un modo o nell’altro. Non è compito della commissione farlo perché molte delle politiche sociali sono compito dei singoli stati membri. Non abbiamo le competenze per legiferare.
Lei ha bloccato la fusione tra Siemens e Alstom. Molti hanno paura che non avremo mai dei campioni europei come Cina e Usa.
Abbiamo un discreto numero di campioni europei, ma il punto principale è assicurarsi che l’economia europea funzioni in quanto tale. La caratteristica della nostra economia è che è formata da tante piccole e medie imprese. A volte pensiamo all’industria automobilistica tedesca, ma è un’industria europea perché ci sono produzioni di linee di assemblaggio di componenti per auto in gran parte dell’Europa. E da ciò deriva un altissimo grado di flessibilità perché ci sono più subappaltatori e più punti vendita. In generale questo tipo di flessibilità crea posti di lavoro: 12 milioni negli ultimi cinque anni. Non ci sono mai stati così tanti europei con un posto di lavoro: 240 Milioni di persone. Quindi è molto importante guardare all’intera struttura delle aziende, non solo a una parte. La nostra politica non deve essere fatta solo per i campioni europei ma deve proteggere l’intero ecosistema produttivo perché altrimenti c’è un enorme rischio di perdere un certo numero di benefici, tra cui i nuovi posti di lavoro.
Dicono che lei sia troppo intransigente nell’applicare la legge sulla concorrenza del mercato comune europeo.
Trovo che la prevedibilità e la parità di trattamento con cui facciamo le cose sia il grande beneficio della comunità imprenditoriale europea. Sì, siamo invadenti, facciamo molte domande, ma se un’azienda sa che se il suo concorrente è trattato allo stesso modo si sente al sicuro. Poi se non si è d’accordo con una decisione si può sempre portare la Commissione in tribunale.
Eppure Francia e Germania hanno protestato per la mancata fusione. E non hanno interessi simili a quello degli altri piccoli Stati.
I politici non dovrebbero decidere come e quanto devono crescere le aziende. I consumatori europei sono molto più bravi a farlo con il loro comportamento. Abbiamo fatto una scelta strategica che è stata presa decenni fa: l’Europadeve basarsi su una concorrenza leale. È anche nel preambolo del trattato. Ed è una scelta strategica e politica, perché non hanno fatto la stessa scelta in Cina.
Vero, ma il mercato globale non è equo e globale come quello europeo.
Abbiamo tenuto conto di questo aspetto nelle relazioni tra Commissione europea e governo cinese. La Cina è molte cose. A volte è un partner con cui lavoramo molto bene per cercare di risolvere i problemi legati al cambiamento climatico. Ma è anche un concorrente strategico. Se guardate le conclusioni del vertice UE sulla Cina potrete vedere che abbiamo tenuto conto di questa dualità. Credo che un’Europa più fiduciosa debba insistere per una concorrenza leale. Noi sosteniamo le nostre imprese se incontrano una concorrenza sleale al di fuori dell’Europa.
Cina e Stati Uniti proteggono però le loro industrie e l’innovazione, mentre alcuni accusano l’Europa di avere la concorrenza come unico criterio.
La concorrenza è solo una parte di ciò che rende l’Europa un ottimo posto per fare affari. L’Unione europea investe nella ricerca, nello sviluppo dell’innovazione, nel libero accesso ai mercati per tutti senza barriere. La mia collega Cecilia Malmström con il suo lavoro ha portato ad abbandonare il vecchio concetto di libero scambio. Ormai è solo un rischio avere un commercio libero “vecchia scuola” perché importi beni prodotti in condizioni di lavoro che non condividiamo come europei, fatti spesso violando diritti umani e il benessere degli animali. Vogliamo avere un commercio basato sul valore. Una priorità europea deve essere, per esempio, gestire al meglio il cambiamento climatico, aumentando gli standard. Il che è un vantaggio per le imprese europee. Se vuoi farne parte, sviluppi soluzioni pertinenti, influenzando positivamente anche il mercato globale.
Il problema è che l’apertura non può essere solo da una parte.
Sono completamente d’accordo. La Commissione europea sta lavorando da molto tempo su questo aspetto. Se vogliono fare affari con noi, vogliamo essere in grado di fare affari con loro. Perché se vuoi un mercato globale, l’apertura deve essere in entrambi sensi. Ma riguarda anche noi. Se usiamo al massimo gli strumenti che abbiamo già a disposizione non è necessario accettare solo l’offerta più economica possibile, ma assicurarsi quelle che rispettino le condizioni di lavoro e l’approvvigionamento di materie prime.
Non ha paura ci possano essere ripercussioni?
Qualunque lavoro si vuole avere in futuro, bisogna fare il lavoro che si ha adesso nel modo in cui dovrebbe essere fatto.