Un altro post sul governo, il terzo in due settimane. Tre indizi social fanno una prova: Di Battista è tornato a dettare la linea del Movimento Cinque Stelle e non è detto che sia una buona notizia. Lo fa con un post-manifesto, sette punti da realizzare al più presto. Ci sono gli evergreen del Movimento delle origini: tagli allo stipendio di parlamentari e consiglieri regionali e la fine del finanziamento pubblico all’editoria. Ci sono anche due proposte più a sinistra del M5S guidato da Di Maio: il recupero dell’Ici non versata alla Chiesa cattolica e il ritiro del contingente italiano dall’Afghanistan. Senza contare quella più populista di tutte: la revoca della concessione autostradale ad Atlantia. E pazienza se a guardar bene, realizzare queste misure farebbe guadagnare allo Stato a malapena un miliardo e mezzo quando ne servirebbero 53 per ripagare i crediti delle imprese. Di Battista sarà il solito censore, pasionario, populista e un po’ superficiale nel tagliare con l’accetta i problemi, ma dopo l’autogol di Fico del 2 giugno e i fallimenti delle amministrazioni Appendino e Raggi, Dibba è l’unica risorsa a disposizione del Movimento per arginare il crollo. O almeno l’ultimo tentativo per tornare alle origini. Di Maio ormai è un leader spompato, ha esaurito la sua spinta propulsiva ed è legato mani e piedi al destino del governo Conte. Nella nuova alleanza gialloverde in cui sono cambiati i rapporti di forza, che sia un rimpasto o una fase 2, Di Battista è l’ultima, forse unica arma per tenere testa mediaticamente a Salvini e far passare la nottata in attesa di tempi migliori. Non è detto che sia una mossa vincente, non è detto che sia una strategia coordinata, ma dalla sconfitta del 26 maggio vale tutto.
Dopo lo show della rinconferma a Di Maio sulla piattaforma Rousseau lo scontro non sembra più interno al Movimento Cinque Stelle. Roberto Fico che viene descritto da mesi dai mass media come l’anima a sinistra del Movimento in realtà a parte qualche frase estemporanea sembra aver subito la “sindrome dei corazzieri” e non ha mai fatto nulla per rivendicare lo spazio politico. E quando ci ha provato lo ha fatto in modo goffo, dedicando la festa del 2 giugno ai Rom e Sinti. Voleva fare uno sgarbo politico a Salvini, ha fatto un autogol. Lo scontro vero in questo governo è tra apocalittici e integrati. Gli integrati Conte e Tria su suggerimento di Mattarella, vogliono trattare con l’Europa per evitare la procedura d’infrazione e la speculazione dei nostri creditori. Mentre i due apocalittici vice premier Di Maio e Salvini per ragioni diverse non vogliono fare la figura di chi ha ceduto a Bruxelles.
Ora che i rapporti di forza si sono ribaltati, il M5S ha aperto i ranghi: liberi tutti. Il governo gialloverde non è in discussione, ma bisogna sembrare anti establishment per non prendersi la colpa della prossima legge di bilancio e della probabile procedura d’infrazione. Perché il M5S vuole sopravvivere al suo capo politico
In questa frattura dove all’apparenza l’armonia è sovrana, ma non sovranista per non indispettire i mercati, si è inserito Di Battista, sempre a suo agio nei panni dell’apocalittico. Non a caso ha attaccato l’istituzionale Tria per non aver rispettato la pagina 21 del contratto di governo e lo ha fatto con un linguaggio salviniano «Tria non ha mai preso un voto». Un colpo alla suocera (Tria) affinché la nuora (Conte) intenda. Che sia un gesto spontaneo o l’inizio di una strategia, Di Battista sta agendo coerentemente con quanto annunciato subito dopo le elezioni europee. Davanti ai giornalisti, col casco in mano disse che il M5S avrebbe dovuto rispondere colpo su colpo fin dal primo giorno di governo, senza farsi rubare temi popolari da Salvini e sembrare parte dell’establishment. «Non temete di essere irriverenti, non temete il “politicamente scorretto”, non temete editoriali, articoli o servizi televisivi contro. Siamo sempre stati impertinenti e sfrontati di fronte al potere. Continuiamo ad esserlo anche se al potere ci siamo noi», ha scritto su Facebook Di Battista il 29 maggio.
E dire che Di Maio le aveva provate tutte in questo 2019 per fermare il crollo del Movimento Cinque Stelle nei sondaggi. Prima i video insieme con Di Battista per dimostrare che dopo sei mesi di governo il M5S era ancora di lotta. Poi ha approfittato del silenzio di Di Battista per riproporre la stessa strategia moderata usata per la campagna elettorale del 4 marzo, ma è stato comunque travolto dalla Lega alle elezioni. Come hanno detto i vari Gianluigi Paragone e Roberta Lombardi, forse il problema era solo la persona, ormai logorata da due ministeri, crisi aziendali, minoranza interna e un alleato di governo che fa politica dal 1993 ma sembra l’uomo nuovo. E ora che i rapporti di forza si sono ribaltati, il M5S ha aperto i ranghi: liberi tutti. Il governo gialloverde non è in discussione, ma bisogna sembrare anti establishment per non prendersi la colpa della prossima legge di bilancio e della probabile procedura d’infrazione. Perché il Movimento Cinque Stelle vuole sopravvivere al suo capo politico dopo la fine del governo Conte. Che sia ora o tra quattro anni. E allora tanto vale giocarsi la carta Di Battista che il 28 maggio su Facebook scriveva: «Non abbiamo nulla da perdere. Né ruoli, né poltrone, né carriera. Sono gli altri i politici di professione, non noi. Perché è proprio quando non si ha più nulla da perdere che si ricomincia a vincere». È vero, il M5S e Di Battista non hanno nulla da perdere a tornare quelli delle origini, ma tutto da guadagnare. Anche perché solo un pentastellato, politico di professione, rischia veramente la poltrona.