Il beato, spesso, è equiparato al beota. Il beato sa che ogni potere esiste per perderlo, per dissiparlo, che non esiste rischio ma continua risposta, che il potere è spaventato dalla povertà. Per questo, lo si dice beota, è alienato dal commercio, non ha relazioni, è realizzato. Il suo genio non si misura in applausi, con il metro dello stipendio, con il gregge delle amicizie doc. Egli è sconosciuto ai più, ignoto anche a se stesso, non sa cosa sia l’innocenza perché ne ha trasceso il biancore – non illumina, si lancia.
Non cerca – non cerca nulla ed è introvabile – quando ha un pasto e nessuno a cui donarlo, senza pignolerie da puro di cuore, ringrazia.
Di cosa devi essere felice? Di tutto. Di nulla. Il beato vive nel grazie e nel sì, in uno stato che precede Eden e le semplificazioni di bene e di male. Non è indifferente – indifeso, piuttosto.Vive l’inconciliabile, non celebra i culti, non coltiva: il suo passare ci colpisce con l’arma del se, con atrocità interrogativa, chi sei? Ci scava, con zappa di luce e vanga d’abisso. Il beato sorpassa le beatitudini, perché la purezza non ha decalogo.
Il santo deve essere macchiato, esagitato, fuori norma, perfino violento – la santità è concessione all’eccesso. Il beato ha covo nell’insignificanza, è calibrato alla scomparsa, nell’erba vede una omelia.