L’unica proprietà che abbiamo è questo corpo che tocco, nel logorio del tempo – ed è di questa proprietà, l’io, l’individuo, che ci espropriano. Palestrato al netto di chi vuole vederci – e venderci – così e non chi sei.
*
Questo esproprio non riguarda il tempo – contratto il mio tempo per un tot di denaro – ma, profondamente, l’individuo. Così, ci adattiamo a un lavoro che non è per noi, ‘ma rende’, senza considerare che l’atto reiterato in ciò che non ci appartiene e non appare appropriato, sfianca il nostro talento – questo è sempre stato il punto: non la dinamica economica ma l’involuzione psichica. Più che la rendita, qui è la resa, incondizionata: sfatiamo il talento in hobby, ci diamo ad attività sfiancanti – sport, palestra, corsa – che non ci fanno ‘stare bene’ (il bene dimora in altri regni, altri ranghi); semplicemente, ci consumano. La fatica giustifica la nostra inedia esistenziale. Non siamo né Oblomov né Casanova, non sappiamo l’arte dell’ozio e la goduria del sedurre al caos, né l’inettitudine che procaccia pensieri penetranti – Svevo, Pirandello, Kafka, Camus. Ci crediamo sovrani – soldi sufficienti a calibrare il corpo in una geometria narcisista – perché rubandoci l’individuo ci hanno dato l’individualità. Ma l’individuo non ha bisogno di niente – ha tutto dentro di sé – mentre l’individualità si nutre di tutto, sta bene con i surrogati dell’individuo: vestiti modaioli, locali giusti, case sopraffine, amanti adatte/i, viaggi esotici, cartografia instagram a go-go. Di noi non abbiamo sacrificato una parte per il bene di tutti – il senso sublime dello Stato – ma ci siamo uccisi al vivere, declinando in una frustrazione continua. Lo stato ‘di natura’ ci è impossibile, ora – ne saremmo sarchiati e sopraffatti: non ci insegnano più i nomi degli alberi né la virtù dei commestibili, perché?, e un insetto, nel bosco, avrebbe ragione di noi, inabili a inarcarci sui monti innamorati al nulla – possiamo solo sperare nello Stato, innaturale. Ci diciamo predatori, ma ad armi pari, saremmo la più fragile preda – chi disgrega e dilania per noi la bestia facendocela trovare sfilettata, sotto plastica, luminosa, perfetta, al supermercato?, chi immagina il corpo morto della bestia mentre passa sulla teglia imburrata il tozzo di pollo per i figli, per carità, il bendiddio della famiglia? Passare dall’orizzonte del servo della gleba a quello del consumatore ha reso più felici i potentati: se il servo si ribella può far male – ha due braccia così ed è allenato dalla vessazione –, il consumatore, al contrario, è innocuo. E se alza la cresta, lo si rimbambisce con qualche centone in più.