Scherzare col fuocoProcedura di infrazione, comunque vada sarà un’Apocalisse

Quella che il governo gialloverde sta cercando di rendere una tempesta in un bicchier d’acqua, è in realtà uno tsunami economico-politico. Tra spread alle stelle e crescita scarsa, i rischi sono serissimi. Ecco perché

C’è chi gioca con il fuoco e c’è chi minimizza. La procedura d’infrazione contro l’Italia per aver violato la regola del debito è diventata in ogni caso l’ultima cartina di tornasole per il governo gialloverde. I continuisti sperano che ce la caveremo con una multa. Salata, ma in ogni caso diluita nel tempo. In Italia le multe hanno vita lunga e spesso finiscono nel cestino. Intanto, il governo potrà gettare la responsabilità su Bruxelles, la Lega batterà la grancassa anti-europea mentre il Movimento 5 Stelle rilancerà la palla. Il presidente del Consiglio chiederà di riformare i trattati e il povero ministro dell’Economia dovrà far appello a tutta la fantasia finanziaria sua e dei suoi collaboratori per rastrellare qua e là (ma pur sempre dalle tasche di risparmiatori e contribuenti, qualche manciata di miliardi. Gli espedienti non mancano certo: dalle cassette di sicurezza ai minibot, dal dividendo straordinario della Cassa depositi e prestiti all’oro della Banca d’Italia e chi più ne ha più ne metta. Non è la prima volta, del resto, e non sarà l’ultima. Dalla tassa per l’euro ai derivati del Tesoro, se ne sono viste tante e altrettante ne vedremo. La speranza, insomma, è di ridimensionare la procedura d’infrazione contro l’Italia a una tempesta in un bicchier d’acqua. Ma davanti a noi si staglia un vero tsunami economico-politico. Matteo Salvini dice di voler evitare la procedura, “non a ogni costo” e minaccia:“10 miliardi per la flat tax o lascio”, cerando di preparare il terreno per la prossima campagna elettorale. Per lui come per Luigi Di Maio, la prossima legge di bilancio appare un’ordalia.

Chi ragiona solo attorno alle tecnicalità europee trascura l’impatto sui mercati finanziari di una procedura per debito, finora mai avviata. L’effetto immediato sarà senza dubbio un altro rialzo dello spread che sta attorno a 250 punti base, ciò vuol dire tassi del 2,5% superiori a quelli tedeschi. Il debito è caro e lo sarà ancora di più. Mentre la crescita, ormai è quasi scontato, rimarrà se tutto va bene attorno all’1,5% considerando anche l’inflazione. Il che solleva un angoscioso interrogativo: l’Italia sarà in grado di pagare? Fino a quando resterà solvibile? Esiste una formuletta abbastanza semplice: se il tasso di crescita del pil nominale è inferiore al tasso d’interesse sul debito, scatta l’allarme rosso. Lo ha ricordato anche Paolo Savona il quale, pure, pensa che il debito italiano possa arrivare al livello giapponese, tanto i risparmiatori continueranno a investire in Btp i quali offrono uno sconto del 15% rispetto a tutte le altre attività finanziarie (a dimostrazione che qui la borsa, le azioni, i titoli privati sono considerati di livello inferiore ai titoli di Stato). Oggi come oggi il gap tra crescita e spread mostra che siamo sull’orlo del crac. Il governatore della Banca d’Italia ha già messo in guardia chi abbia voglia di ascoltarlo. Per evitare una crisi da insolvenza, esiste una sola strada, a parità di crescita: aumentare l’attivo primario cioè al netto degli interessi, ma proprio qui casca l’asino.

A settembre le agenzie di rating dovranno valutare il debito italiano. Con una procedura d’infrazione aperta, con tassi crescenti e un pil stagnante, quale sarà il loro giudizio?

A settembre le agenzie di rating dovranno valutare il debito italiano. Con una procedura d’infrazione aperta, con tassi crescenti e un pil stagnante, quale sarà il loro giudizio? Un downgrading del debito (che oggi è in media due punti in più del junk) potrebbe innescare un effetto domino che dalle banche, piene di titoli di Stato e, ancora, di crediti in sofferenza, ricadrebbe sulle imprese e sulle famiglie. Non si tratta di fare i cavalieri dell’apocalisse, ma è del tutto insensato non tener conto di tutte le possibili conseguenze.

Riassumiamo a questo punto un po’ di fatti e di circostanze concrete. Quella che la commissione Ue si appresta a “raccomandare” al Consiglio dei capi di Stato e di Governo che si riunisce il 9 luglio, è tecnicamente una procedura per disavanzo eccessivo causato dal mancato rispetto della regola del debito che nel 2018 è stato pari al 132,2% rispetto al 131,4% del 2017, nel 2019 si attesterà al 133,7% e nel 2020 raggiungerà il 135,2%. Il criterio codificato nel fiscal compact e nelle sue ulteriori declinazioni (in particolare il two pack) non è rispettato poiché prevede che il debito vada tagliato di un ventesimo l’anno e comunque proceda con sufficiente velocità verso l’obiettivo del 60% del Pil. In più, nel 2018 non c’è stata alcuna discesa del deficit strutturale, parametro fondamentale in quanto fotografa l’andamento del deficit al netto delle una tantum e delle variazioni del ciclo economico. Il governo si era impegnato un anno fa a ridurlo dello 0,3%. Nel calcolo cumulato 2018-2019 si arriva a uno scarto dello 0,7% tra 11 e 12 miliardi.

In realtà, viene richiesta una manovra correttiva più modesta, tra lo 0,2 e lo 0,3% del Pil (da 3,6 a 4,8 miliardi) da varare entro l’anno che si aggiunge ai 23 miliardi per evitare le clausole di salvaguardia che prevedono l’aumento delle imposte in dirette (soprattutto l’Iva). Se i piani di rientro non fossero ritenuti sufficienti, arriverebbe da Bruxelles un secondo invito e se non bastasse nemmeno questo, allora potrebbe essere imposto l’obbligo di un deposito infruttifero pari allo 0,2% del Pil (3,6 miliardi), con possibilità che possa arrivare allo 0,5%. Nel caso in cui la raccomandazione non venisse rispettata, verrebbe convertito in ammenda e potrebbe scattare anche un’ulteriore sospensione dei fondi di coesione europei.

La commissione europea non è arcigna solo nei confronti dell’Italia, anche se in tutti gli altri casi si è sempre trattato di sforamento dei parametri del deficit e non del debito

È scritto testualmente: “Fintantoché uno Stato membro non ottempera, il Consiglio può decidere di applicare o, a seconda dei casi, rafforzare una o più delle seguenti misure: chiedere che lo Stato membro interessato pubblichi informazioni supplementari, che saranno specificate dal Consiglio, prima dell’emissione di obbligazioni o altri titoli; invitare la Banca europea per gli investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso lo Stato membro in questione; richiedere che lo Stato membro in questione costituisca un deposito infruttifero di importo adeguato presso l’Unione, fino a quando, a parere del Consiglio, il disavanzo eccessivo non sia stato corretto; infliggere ammende di entità adeguata”. Bisogna aggiungere il congelamento dei fondi del piano Juncker da parte della Banca europea degli investimenti (Bei), ovvero circa 12 miliardi di euro l’anno diretti alle nostre imprese e alle nostre università e la fine delle coperture della Banca centrale europea (Bce) con relativa e drammatica esposizione sul fronte dei mercati e dello spread. Altro che multa, c’è davvero poco da scherzare.

La commissione europea non è arcigna solo nei confronti dell’Italia, anche se in tutti gli altri casi si è sempre trattato di sforamento dei parametri del deficit e non del debito. Tra il 2009 e il 2016, solo Svezia, Estonia e Lussemburgo non hanno mai violato la soglia del 3 per cento del rapporto deficit/pil; Spagna, Regno Unito e Francia lo hanno fatto ben otto volte (ovvero ogni anno); Grecia, Croazia e Portogallo sette. L’Italia è caduta in fallo in tre occasioni e in questi anni ha mantenuto un’incidenza percentuale media del disavanzo pubblico al -3,3%: contro il -7,9 della Spagna, il -6,6 del Regno Unito e il -4,8 della Francia. Nel giugno del 2005, governo Berlusconi III, la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia applicando l’articolo 104, paragrafo 3 del Trattato Ue, dopo aver constatato che il disavanzo di bilancio dell’Italia ha superato, seppur lievemente, la soglia nel 2003 e nel 2004 e, secondo le previsioni, nel 2005. Ne uscirà dopo tre anni, quando il consiglio Ecofin, riunito a Lussemburgo il 3 giugno del 2008, deciderà di chiudere la procedura.

C’è una sostanziale differenza tra Roma e Parigi. Il debito pubblico francese è al 98% e viene considerato sicuro

E la Francia? È vero che ha potuto violare le regole senza subire conseguenze come sostengono gli esponenti del governo, seguiti da giornali e televisioni allineate? No, le cose non stanno così. La Francia è rimasta per nove anni in procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo e ne è uscita solo l’anno scorso. Nella manovra 2019 aveva previsto di alzare il deficit al 2,8% con misure temporanee invece di ridurlo ulteriormente, ma promettendo di farlo calare all’1,8% nel 2020. Invece, le misure annunciate da Emmanuel Macron porteranno di nuovo il disavanzo pubblico oltre il 3%. Il commissario Pierre Moscovici ha spiegato che le regole consentono uno sforamento “limitato, temporaneo, eccezionale”, che non deve eccedere il 3,5% e non deve protrarsi oltre l’anno. Inoltre Parigi prevede un miglioramento del saldo strutturale di 0,2%. Il deficit italiano al 2,4% è ampiamente dentro le regole, il saldo strutturale peggiora di 0,8% invece di migliorare di 0,6%.

Ma c’è una sostanziale differenza tra Roma e Parigi. Il debito pubblico francese è al 98% e viene considerato sicuro. Il debito francese godeva delle 3A, il massimo del punteggio, il persistere di un disavanzo eccessivo ha fatto scendere il rating a 2A; in ogni caso significa amplissime garanzie che verrà onorato. Chi investe in titoli pubblici transalpini non rischia praticamente nulla, anche per questo lo spread è in sostanza zero, rispetto al Bund tedesco. La Francia gode per tre anni di un periodo di transizione nel quale dovrà fare aggiustamenti strutturali minori di quanto richiesto dalle regole, una clausola che si applica ai paesi appena usciti dalla procedura per deficit. Anche l’Italia ne ha usufruito fino al 2016 e ha poi ottenuto margini di flessibilità che non sono serviti a ridurre il debito. La manovra del governo Gentiloni per il 2018 era stata promossa in via definitiva dalla Commissione europea solo con la promessa che nell’arco dell’anno ci sarebbe stato un miglioramento strutturale di 0,1% e che la legge di bilancio per il 2019 ne avrebbe previsto uno da 0,6%. Due circostanze che non si sono verificate. Altro che rigore, altro che austerità. Il governo giallo-verde ha continuato il gioco a rimpiattino anche con la legge di bilancio per il 2019. Vedremo se il 9 luglio il Consiglio europeo fischierà la fine della ricreazione.