Partiamo da due punti fermi. Primo, a sentircelo dire con la voce sincera di Vasco, ancora in perfetta tenuta alla fine del concerto c’è da credergli. In fondo ha cantato in coro con tutto il pubblico, con noi tocca dire per onestà intellettuale, per quasi due ore e mezzo di concerto, ha corso su e giù per un palco largo oltre cento metri, non si è risparmiato in niente, c’è da credergli: ce la faremo tutti.
È con questa frase, ormai diventata d’abitudine, come la scelta di chiudere i concerti sempre e comunque con Albachiara, che Vasco ha salutato il suo pubblico accorso in sessantamila unità a San Siro nel primo giorno 2019. “Ce la farete tutti”. Secondo, lui, Vasco, e la sua band, a partire dal capo orchestra Vince Pastano, responsabile del nuovo sound, e a seguire Stef Burns, il Gallo, Torre, Beatrice Antolini, Frank Nemola, Alberto Rocchetti, Matt Laugh, non devono aver letto quell’articolo di Rolling Stone, un tempo Bibbia del Rock, che celebrava la fine della chitarra elettrica.
Perché la prima tappa milanese del VascoNonStop 2019, prima di sei San Siro di fila, record dei record con oltre trecentotrentamila biglietti venduti in una sola città da un singolo artista, è uno spettacolo rock di quelli che ti fanno suonare l’air guitar dalla prima all’ultima canzone, addentrandoti in assoli immaginari che nessuno di noi nella realtà saprebbe replicare su una chitarra vera. Un grande rock ‘n’ roll show.
Uno spettacolo massiccio, il VascoNonStop 2019, che per dirla con Vasco segue davvero quell’onda emotiva perfetta, capace di farti sfogare, emozionare, arrabbiare, sorridere sornione, piangere commosso, riflettere, divertire, sperare. Soprattutto sperare, vedremo tra poco, ma con tutto il resto lì a darsi in continuazione il cambio, come in una partita dell’NBA. Certo, per merito suo, di Vasco, che su quel palco ci dimostra, ce ne fosse bisogno, qual è l’unica vera rockstar che abbiamo in questa nostra Italia disperata, ma anche dei circa sessantamila presenti allo stadio, impegnati per tutto il tempo a cantare in coro le ventinove canzoni scelte per la scaletta, neanche fossero stati ingaggiati per l’occasione.
Ventinove, segnatevi questo numero, che poi ci arriviamo.
Torniamo al cuore del VascoNonStop2019. La disperazione, si diceva. Il concerto, ormai lo sanno anche i sassi, parte proprio da lì, dalla disperazione che è il leit motiv di questi giorni, dell’oggi. E parte dalla sola soluzione che Vasco, professione cantautore, oltre quarant’anni di onorata carriera alle spalle, non certo santone, è in grado di darci. Qui si fa la storia, infatti, questo il titolo del brano scelto per aprire le danze, ipotizza una via di fuga temporanea, e quando si è disperati anche a una via di fuga temporanea ci si può aggrappare con tutte le forze. Da questa disperazione si può fuggire insieme, baby. Una via di fuga che il protagonista della canzone canta a una lei, ma che Vasco sembra voler dedicare a tutti i presenti dentro lo stadio Meazza di Milano, meglio noto come San Siro. Insieme si può mettere in fuga la disperazione, almeno per una notte.
Perché se lo stadio non è venuto giù nell’intro di Portatemi Dio, faccio un esempio, bene, allora potete stare sicuri che non verrebbe giù neanche se ci tirassero dentro una bomba H
La successiva canzone in scaletta, invece, Mi si escludeva, fotografa l’oggi in una istantanea, questa sì, quasi profetica, se si considera che il brano in questione ha quasi venticinque anni. Si parla di inclusione, o meglio, di mancata inclusione, si parla di tirare su muri, si parla di soluzioni disumane adottate per ghettizzare chi ha già problemi, non certo per sua scelta. Insomma, abbiamo tutti ben chiaro il mondo in cui stiamo vivendo. Il tutto con un arrangiamento monolitico, una colata di chitarre elettriche, un giro di basso da farti venire la tachicardia, batteria e percussioni a spingere in avanti il tutto, un arrangiamento in cui anche la voce di Vasco segue il mood, lasciando il recitato della versione originale per addentrarsi in un cantato rabbioso sin dalla prima strofa.
Abbandono la scaletta. Anche questa ormai la sanno pure i sassi. Quello che invece credo sia interessante dire è come tutto il concerto cerchi in qualche modo di assecondare un principio che Vasco ci ha tenuto molto a sottolineare in conferenza stampa. “Spinoza diceva che il potere vuole che il popolo sia sempre triste. Io aggiungo che oggi il potere lo vuole anche impaurito, il popolo. Bene, con il nostro spettacolo proviamo, almeno per una sera, a cacciare questa tristezza e questa paura”.
Missione compiuta. Anche affrontandola di petto, quella tristezza, spesso presente nei testi, si pensi a Vivere o niente, tornata in scena dopo una lunga assenza, o la più nota Vivere.
Ecco, a prendere parte a questa messa laica, termine forse abusato ma talmente incisivo da non poter non essere usato nel parlare di un concerto di Vasco, si ha la sensazione che tutti i presenti, a partire proprio dalla rockstar il cui nome viene cantato in coro ogni volta che la musica si ferma, riescano a esorcizzare ogni singola paura, a cacciare la tristezza a calci in culo, almeno per una sera. Esercizio mica semplice. Sulla paura, invece, Vasco prova a inoculare dubbi, cerca di scardinare sentimenti che purtroppo oggi sembrano comuni, dice la sua senza girarci intorno, forse solo in un ambiente, quello degli artisti, che mai come oggi sembra intimorito dall’esporsi, dal dire la propria. Ma lui è fatto così, ha fatto del metterci la faccia sempre e comunque una sorta di credo, dell’onestà intellettuale una fede, e dell’aprire varchi sulle certezze un mantra. Oggi come quarant’anni fa.
Il sound, poi, è di quelli che la tristezza e la paura riuscirebbe a sgretolarla sotto colpi di maglio, perché quando Vasco ha annunciato la svolta punk-rock, magari facendo storcere il naso ai puristi del genere, non stava affatto esagerando. Henry Rollins è sicuramente il punto di riferimento per questo VascoNonStop 2019, e a sentire Cosa succede in città, Gli spari sopra o le nuove versioni di Fegato Fegato Spappolato, con in coda una devastante Asilo Republic, o Portatemi Dio viene davvero da credere che tutta la faccenda delle vibrazioni che metterebbero a rischio la struttura dello stadio Meazza di Milano, meglio noto come San Siro, sia tutta una fesseria. Perché se lo stadio non è venuto giù nell’intro di Portatemi Dio, faccio un esempio, bene, allora potete stare sicuri che non verrebbe giù neanche se ci tirassero dentro una bomba H. Una vera bordata di suoni arrabbiati, energici, di quelli che ti impediscono di stare fermi, immobili, disincantati.
C’è un solo nome capace di mettere d’accordo più generazioni, di tagliare strasversalmente classi sociali e culturali, di incarnare lo spirito e quindi la voce di un noi reale, non percepito o autodichiarato
La faccenda dello stare fermi, magari, dovrebbe essere affrontata con un po’ di maggiore attenzione. Perché una cosa andrebbe ammessa da quella genia di intellettuali che ha sempre guardato al nostro come a una sorta di simpatico guascone, non certo uno da prendere troppo sul serio, forse per quella faccenda della vita spericolata sbandierata ai quattro venti, o per le tette al vento esibite dalle sue fan durante Rewind, o per una certa anarchia difficilmente inquadrabile in logiche di partito, ecco, quella genia di intellettuali dovrebbe ammettere che oggi in Italia, e per oggi si intende in questo 2019, ma probabilmente anche nei decenni passati, c’è un solo nome capace di mettere d’accordo più generazioni, di tagliare strasversalmente classi sociali e culturali, di incarnare lo spirito e quindi la voce di un noi reale, non percepito o autodichiarato, Vasco. Un rocker, si mettano il cuore in pace quanti ritengono di essere i portatori sani di non si sa quale diritto in proposito, un rocker che oggi ha deciso di tirare in ballo il punk, guardando in questo all’hardcore di un Henry Rollins, certo, ma non per questo sminuendo la carica iconoclasta di certe sue canzoni di inizio carriera. Non è forse punk Asilo Republic? Non è forse punk Fegato fegato spappolato? Non è forse punk Portatemi Dio? Dai, fatemi il piacere.
Vasco a San Siro oggi è riuscito nel suo intento, ha cacciato via, almeno per le due ore e mezzo di show, la disperazione. Non perché sia consolatorio, la carica di rabbia, sarcasmo, ironia, malinconia, tristezza che trapela dalle sue canzoni è e rimane presente anche in questa versione live, decisamente tirata anche quando il rock lascia spazio alle ballad.
No, Vasco non è consolatorio. È sincero, e questo, nell’era della post-verità, è già un ottimo punto di partenza per guardare al futuro. Proprio La verità, suo ultimo singolo proposto per la prima volta dal vivo, dimostra, ce ne fosse bisogno, come il nostro sia capace di regalare potenza, di suono, parlo di epicità, e di empatia, parlo di capacità di coinvolgere emotivamente.
Anni fa, quando ho cominciato a scrivere di lui, professionalmente, ho dichiarato in esergo di un mio fortunato libro che non ero un suo fan. Era un modo per dire che ne avrei parlato senza inchini e sudditanze psicologiche alla Moggi. Continuo a faticare a vedermi come il fan di qualcuno, e il fatto che nel mentre io lo abbia frequentato per lavoro può aver introdotto sentimenti e affetto che in assenza di onestà intellettuale potrebbero falsare il tutto. Ma oggi mi sento di dire che anche io come i sessantamila presenti a San Siro faccio parte di quel noi collettivo, quello che un tempo veniva cantato in Siamo solo noi, brano ancora oggi in scaletta, nel finale, mentre per altro sullo sfondo si srotolano le immagini de Il quarto stato del rock, idea del regista Pepsy Romanoff che ricrea ad hoc il noto dipinto di Pellizza Da Volpedo, con Vasco e la sua ciurma al posto dei braccianti e operai dell’opera del pittore piemontese. Questo lo posso ammettere senza paure, essere parte di un noi, anche per uno spirito anarchico come il mio, è davvero un’ottima maniera per dare un calcio alla tristezza, almeno per una sera.