Potrebbe essere il bluff più riuscito della storia politica inglese. Oppure un tonfo clamoroso verso il nulla. Ma l’unica strategia possibile per non fare la fine di Theresa May. Ieri è iniziata la fase uno del piano di Boris Johnson: mostrare a Bruxelles che il Regno Unito non ha paura di uscire il 31 ottobre dall’Unione europea senza un accordo. Un negoziato stile Trump per mostrare i muscoli: annunciare il peggior scenario possibile per ottenere il miglior accordo possibile. Il premier inglese è pronto a tutto, persino a spendere oltre 100 milioni di sterline nella più grande campagna pubblicitaria governativa dalla seconda guerra mondiale. Spot in tv, manifesti di carta e flyer per tutto il Regno Unito per preparare i sudditi di Sua Maestà a una Brexit senza accordo. Tradotto: è iniziato il chicken game più pericoloso della storia europea. E Boris non ha intenzione di tirare il freno. Ieri la portavoce del premier ha dato il via alle danze sostenendo che il Regno Unito non aprirà i negoziati con l’Unione europea fin quando non sarà tolta la clausola del backstop. Il meccanismo che imporrebbe il ritorno delle dogane nel complicato confine tra Irlanda e Irlanda del Nord è il motivo principale per cui l’accordo siglato dall’ex premier Theresa May con la Commissione europea è stato bocciato tre volte dalla Camera dei comuni. I parlamentari inglesi non voteranno mai un accordo con quella clausola ma il capo negoziatore per la Commissione, Michel Barnier, ha detto che l’accordo non si tocca. O si mangia la minestra o si salta dalla finestra. E Johnson sta preparando il grande salto anche se a 93 giorni dalla scandenza né Londra né i 27 Stati Ue sono pronti a uno scenario senza accordo.
La strategia kamikaze l’ha spiegata ieri il ministro degli Esteri britannico, Dominic Raab alla Bbc: «Sarà più facile ottenere buoni accordi commerciali dall’UE dopo il no deal». Ovvero Johnson è disposto anche a due, tre, quattro mesi di caos al di qua e al di là del confine pur di poter poi negoziare un accordo vantaggioso. Una tattica simile a quella dell’Italia con i suoi alleati dell’eurozona: o mi accontentate, o faccio saltare tutto. Tutto dipenderà dalla reazione della Commissione europea. Se avrà paura delle conseguenze, tratterà e Johnson avrà vinto il suo all-in politico. Se non cederà, Johnson avrà portato il Regno Unito in un territorio sconosciuto anche al più ottimista dei brexiteers. E lì può succedere di tutto, ma secondo il premier qualsiasi cosa sarebbe meglio dell’accordo May. Dopo la pausa estiva la Camera dei comuni si riunirà i primi giorni di settembre. I maligni dicono che Johnson sarebbe ben felice se il Parlamento gli togliesse l’impiccio del bluff con una mozione di sfiducia che costringerebbe il Paese a nuove elezioni. Per ora la maggioranza si regge su soli due deputati. E uno di questi Chris Davies, condannato per aver prodotto falsi documenti sulle sue spese, il 1 agosto dovrà battersi per mantenere il suo seggio nella circoscrizione gallese del Brecon Radnorshire.
Rispetto a May che aveva fatto della Brexit ordinata il suo mantra, Johnson sa che è stato eletto per provare tutte le mosse possibili e impossibili. Anche pretendere l’eliminazione della clausola di backstop nonostante sia l’unico totem a cui i 27 leader Ue non vogliono rinunciare
Il bluff si capisce dalle sfumature. Johnson manda avanti i suoi collaboratori e colleghi a fare le dichiarazioni più dure da poliziotto cattivo. Come a far capire all’Europa che questa volta si fa sul serio. Se Michael Gove afferma che il governo si prepara ad affrontare il no deal perché i partner europei non vogliono un accordo, il premier fa il poliziotto buono, smentisce il suo ministro per il no-deal, sì avete letto bene, e dice di voler trovare a tutti i costi un nuovo accordo. Salvo poi ricordare che «Il backstop non va bene» e il Regno Unito si prepara a ogni evenienza. Assicura di aver parlato con le cancellerie di mezza Europa ma secondo fonti inglesi non ha ancora parlato al telefono con il premier irlandese Leo Varadkar. Rispetto a May che aveva fatto della Brexit ordinata il suo mantra, Johnson sa che è stato eletto per provare tutte le mosse possibili e impossibili. Anche pretendere l’eliminazione della clausola di backstop nonostante sia l’unico totem a cui i 27 leader Ue non vogliono rinunciare per dimostrare compattezza e supporto politico all’Irlanda. Non sia mai che qualcuno abbocchi.
Nel Regno Unito c’è una politica che ha tanta voglia di un no deal: Nicola Sturgeon. La first minister scozzese da mesi chiede un secondo referendum per l’indipendenza da Londra dopo quello del 2014. La ragione è proprio la Brexit: cinque anni fa il 55% degli scozzesi votò per rimanere nel Regno Unito anche perché Londra minacciò di mettere il veto per non farli rientrare nell’Unione europea. Altri tempi, altre promesse. Ma dopo la Brexit i termini sono cambiati. E ieri Sturgeon non ha fatto nulla per nascondere il fastidio di dover ricevere Johnson nella Bute House. Trenta secondi di fischi, ululati e insulti hanno accompagnato la walk of shame di Boris Johnson in quei pochi metri di distanza tra la sua auto blu e la residenza della First minister. A Edimburgo non mostravano così tanto odio verso gli inglesi da quando al cinema davano Braveheart. E non ha sortito alcun effetto l’annuncio di Johnson di dare altri 300 milioni di sterline di finanziamenti extra per Scozia, Galles e Irlanda del Nord.
Neanche con la stampante 3D Sturgeon avrebbe potuto costruirsi un nemico migliore. Johnson rappresenta tutto quello che gli scozzesi odiano: è un conservatore, Leaver, elitario, ha studiato a Eton e Oxford, british fino al midollo e convinto della superiorità culturale, sociale e politica dell’Inghilterra sulle altre tre nazioni che compongono il Regno Unito. Addirittura nel 2004 da direttore del giornale Spectator permise la pubblicazione di Friendly Fire, una poesia satirica in cui l’autore sosteneva il genocidio culturale e fisico degli scozzesi. Non il miglior biglietto da visita per far desistere Sturgeon dal chiedere un secondo referendum per l’indipendenza, ormai sempre più probabile. L’incontro non è andato bene. Johnson è uscito dal retro e Sturgeon ha detto che non sosterrà mai l’uscita dall’Ue senza accordo: «Dietro il bluff e la spacconeria c’è un governo pericoloso. Dice che vuole un accordo con l’UE ma non c’è alcuna chiarezza su come pensa di poter ottenerlo vista la linea molto dura che sta prendendo. Gli ho fatto capire che gli scozzesi non si faranno imporre da altri il loro futuro».
Nel frattempo la sterlina sta continuando a crollare e ieri il suo valore era ai minimi da due anni e mezzo. E secondo la Confederation of British Industry gran parte dell’economia inglese ed europea è gravemente impreparata a una Brexit senza accordo e subira problemi economici per almeno un decennio. Dal settore agroalimentare a quello chimico, dalla finanza alla logistica fino all’energia. Il report si basa su migliaia di interviste con aziende di ogni dimensione e settore e fa il paio con il report di ieri pubblicato dall’Institute for Governments, think tank del governo, secondo cui in soli 93 giorni sarà impossibile un “no deal controllato. Eppure Johnson nel suo discorso d’insediamento davanti alla nazione ha detto che le banche, i porti, le fabbriche e le aziende saranno pronte in tempo. Ma è davvero così? Non proprio. Un’idea della totale impreparazione dell’economia inglese all’ipotesi di no deal l’ha data il giornalista del quotidiano conservatore The Telegraph Peter Foster in un’intervista all’emittente Channel 4: «Non è come addestrare un gruppo di guardie di sicurezza per (il concerto di) Glastonbury, è un problema ragionevolmente tecnico. È un po’ come fare una dichiarazione dei redditi senza un commercialista. Servono tanti agenti alla dogana per capire di quali certificati, dati e permessi avranno bisogno. Chi li addestrerà? metà del traffico che passa per il tunnel sotto La Manica è di piccole dimensioni, le piccole aziende non saranno mai pronte in tempo».