Giovedì gli organizzatori del Salone dell’Auto di Torino hanno annunciato la decisione di spostare l’edizione del 2020 a Milano. È l’ennesimo evento del capoluogo piemontese che lascia, cambia location, minaccia di andarsene. Per di più, dall’odiata cugina. Così vicina geograficamente e così lontana nelle dimensioni in cui le due città si stanno muovendo. Se infatti Milano è nel suo periodo di massimo splendore, “the place to live”, la città della festa, unico posto in crescita nel paese, capace quindi di essere attrattiva anche nel resto del mondo; Torino è ormai la sbiadita e sfocata sorella della città “always on the move” che era stata in grado di impostare un modello innovativo e sperimentale di luogo di commistione tra cultura underground e grandi eventi, avanguardia tecnologica e artistica, capace di uscire dall’ombra lunga della Fiat. Una città che vive alla giornata in un clima depresso e rancoroso, dove le uniche cose che succedono sono ormai legate al famigerato comparto food (per ogni negozio e attività che chiude, apre un ristorante o un “luogo” dedicato al cibo: moriremo senza niente da fare ma grassi, e a chilometro zero) e che se non fosse per il Salone del Libro, del festival di musica avant-pop Club To Club, l’elettronico Kappa Future Festival e l’indie ToDays non avrebbe nessun ulteriore motivo di richiamo. Una città che va avanti per inerzia, depressa, malinconica e che comincia a essere anche un po’ rancorosa. Del resto, Torino ha sempre avuto un particolarissimo genius loci che le ha permesso di diventare quel particolare, perturbante, misterioso, obliquo che fece dire a Umberto Eco che «senza l’Italia, Torino sarebbe più o meno la stessa cosa. Ma senza Torino, l’Italia sarebbe molto diversa.» Un genius loci che adesso appare smarrito.
Sarebbe ingeneroso addossare tutta la colpa a Chiara Appendino, alla sua giunta e alla maggioranza a 5S che appare ogni giorno più traballante (l’addio del Salone dell’Auto è stato causato da uscite obiettivamente poco felici del vicesindaco Montanari – che si augurava grandinate che rovinassero la festa – e una fronda interna al gruppo consiliare di maggioranza, aprendo di fatto una crisi politica per cui, si dice, la Sindaca starebbe minacciando le dimissioni nonostante il pieno appoggio di Luigi Di Maio): loro sono solo dei politici non all’altezza del compito che hanno ottenuto, con un mandato pieno da parte di una cittadinanza che voleva cambiare dopo gli anni dell’opaca e poco appassionante amministrazione Fassino. Un amministrazione, quest’ultima, caratterizzata da una ipertrofia di Grandi Eventi a dispetto di quello che però è sempre stata la caratteristica principale della città – il tessuto diffuso ed esplosivo di cultura di avanguardia che si sviluppava nei quartieri (decine di scene che hanno fatto grande Torino negli ultimi trent’anni e che adesso non ci sono più) – e da una marcata differenza di atteggiamento nel trattare i problemi del Centro e quelli delle periferie, lasciate a loro stesse in quella che è diventata sempre più una vera e propria “storia di due città”. Insomma, i problemi arrivano da lontano, ma questa amministrazione sta facendo di tutto per accompagnare dolcemente il declino al suo naturale esito finale.
Torino è ormai la sbiadita e sfocata sorella della città “always on the move” che era stata in grado di impostare un modello innovativo e sperimentale di luogo di commistione tra cultura underground e grandi eventi, avanguardia tecnologica e artistica, capace di uscire dall’ombra lunga della Fiat
In tre anni il governo di Chiara Appendino si è dimostrato mediocre, privo di visione, incapace di infondere entusiasmo e di dare un chiaro disegno della città. Ha ereditato problemi, ha iniziato nella curva discendente che già male aveva fatto all’amministrazione precedente, ma non ha fatto nulla per invertire la rotta. Non perché mancasse la volontà, ma perché non c’era la sostanza. Solo propaganda sull’Alternativa che non ha prodotto niente. Nessun piano strategico per una “Torino del futuro”. Nessuna capacità di attirare investimenti e creare lavoro. Nessuna sfida per l’internazionalizzazione (considerando la presenza di un Politecnico stimato a livello mondiale e un’Università fondamentale per la cultura di questo paese). Nessun progetto infrastrutturale a parte un bel piano di piste ciclabili (belle, necessarie ma drammaticamente non sufficienti). Nessuna piattaforma per reinnestare processi culturali partecipati in grado di riaccendere il fuoco della città dei Murazzi che furono, dei club aperti tutta la notte, dei concerti tutte le sere. Inoltre, la tegola della Tragedia di Piazza San Carlo del 3 giugno 2017, dove nel panico scatenato persero la vita due persone che ebbe come conseguenza la direttiva Minniti per la riforma degli aspetti organizzativi dei grandi eventi, regalando a tutto il paese una serie di linee guida decisamente stringenti per quanto riguarda la sicurezza.
Una città desertificata che rischia di diventare il fantasma della Torino industriale in cui si agitavano le anime perse e depresse ben raccontate da Giorgio De Maria nell’inquietante romanzo Le venti giornate di Torino, in cui le persone sparivano, le statue si muovevano e tutto intorno trionfava uno strato d’ansia perenne.
La colpa di Appendino e della sua giunta è stata quella di considerare “facile” una sfida amministrativa di questa portata. Le rivoluzioni non si fanno in un giorno. Si preparano, si studiano, si rendono fattibili, realizzabili. Soprattutto, si costruisce un consenso ampio tra enti diversi, associazioni di interesse, organizzazioni di categoria. Si discute a 360° per costruire un piano del futuro di una città. Le comunali non sono le politiche. Sono, invece, quanto più si avvicina all’idea di tutela del bene comune, e hanno bisogno di essere affrontate in modo di verso: al tempo stesso pragmatico e visionario. L’egemonia del centrosinistra, quella che per vent’anni ha governato la città, nasce perché per uscire dall’era industriale, si costruisce con l’impegno di ampie parti di cittadinanza, una coalizione capace di studiare e strutturare un “Piano Strategico” che immaginava in modo realizzabile la città dei prossimi 20 anni. La vittoria del 1993 di Valentino Castellani (un professore del politecnico, progressista e liberale – una sorta di Prodi su scala locale, se vogliamo) nasce grazie a un’alleanza – chiamata appunto Alleanza per Torino – che voleva il progresso della città su linee diverse rispetto a quella novecentesca comunque ben amministrata dallo storico sindaco comunista Diego Novelli.
Questa visione della città ha portato investimenti, allargamenti infrastrutturali, crescita degli atenei come asset strategici, e ha avuto come punto d’arrivo quelle Olimpiadi invernali del 2006 (simbolo degli anni d’oro di Sergio Chiamparino) e diventate via via una e propria vera ossessione dei cittadini oggi depressi che sognano solo un nuovo ritorno a quei momenti di gloria e centralità nel mondo che non avranno più per chissà quanto.
Una città desertificata che rischia di diventare il fantasma della Torino industriale in cui si agitavano le anime perse e depresse ben raccontate da Giorgio De Maria nell’inquietante romanzo Le venti giornate di Torino, in cui le persone sparivano, le statue si muovevano e tutto intorno trionfava uno strato d’ansia perenne.
Chiariamoci: personalmente sono convinto che la giunta Appendino abbia fatto benissimo a non chiedere le Olimpiadi del 2026 e ha fatto bene a non andare in coalizione con Milano e Cortina. Ne dico un’altra: se avessimo partecipato avremmo perso, e se avessimo partecipato con Milano e Cortina avremmo affossato la loro candidatura. Nessuna città con un progetto e una visione seria di sé stessa chiede un evento così particolare e angolare a distanza di 20 anni. Farlo sarebbe stato, come al solito, improvvisazione. Inoltre, personalmente, penso che perdere il Salone dell’Auto sia una bellissima notizia: è un evento molto brutto, oggettivamente poco interessante – supercar in esposizione dentro un parco: bello no? innovativo eh? – che manda un messaggio sbagliato (la cultura dell’auto privata? Ancora?) e che diventa caso scuola nella cattiva gestione di un bene pubblico e comune come il Parco del Valentino (42 ettari di verde in mezzo alla città sulle rive del Po). Ma non è questo il punto. La questione non è di merito, ma di metodo. Quello che fa rabbia, infatti, e giustifica le lamentazioni della cittadinanza, è l’assoluta mancanza di un piano per la città. Oggi non siamo niente, e quel poco che abbiamo lo perdiamo. Cos’è oggi Torino?
Quello che ci vorrebbe è un’idea di sistema che ragioni non per vincere le prossime elezioni, che non improvvisi per un po’ di consenso, ma per costruire la città dei prossimi decenni. Una piattaforma che metta insieme le energie e i talenti (ce ne sono, resistono e vogliono pensare di non morire in un dormitorio milanese a 40 minuti di Alta Velocità) per impostare le linee guida di una città metropolitana di taglio internazionale. Una città dove gli eventi arrivano, restano, crescono e si diffondono su tutto il territorio. Una città che se parla di ambiente e beni comuni guarda alla Barcellona di Ada Colau e alle sue “superillas” o alla “highline” di Manhattan; una città che se parla di innovazione e ricerca aumenta la centralità di Politecnico e Università; una città che se parla di lavoro e futuro cerca di mettere insieme le grandissime realtà del manifatturiero e dell’artigianato (anche nel food, sì) e non le lascia al proprio destino sperando in buon SEO marketing e alle sponsorizzate di Instagram; una città che nel suo Parco più grande ci fa vita tutto l’anno a tutte le ore e non ci mette auto da centinaia di migliaia di euro a fare niente se non sgasare qualche ora in giro per le vie del Centro bloccando tutta la viabilità; una città che non costruisce più confini tra quartieri, lasciando le periferie al proprio destino (andate adesso in quartieri come Barriera di Milano e Borgo Vittoria a chiedere cosa pensano dell’operato della sindaca che hanno votato in grande quantità) e che combatte la speculazione edilizia (per quanto affitti e costi del mattone siano decisamente inferiori rispetto a Milano e Roma, ma questo perché siamo in una fase depressiva); una città in cui si innescano processi per cui quando chiude un esercizio riesce ad aprire qualcosa di diverso rispetto a un ristorante gourmet dove spendere soldi che, di questo passo, non so proprio come potremo continuare ad avere.
La crisi di Torino è frutto dell’incapacità della attuale classe dirigente, le mancanze di quelle precedenti – che non hanno gestito bene eredità pesanti e non hanno lavorato per costruire una successione di livello (la casse politica e dirigente torinese è mediamente molto vecchia) – e il non aver fatto tesoro dei successi che ci sono stati, e che in qualche modo continuano ad esserci (ad esempio il Salone del Libro, o anche – perché no? – la crescita della Juventus e i recenti progressi del Toro), per fare fronte al naturale decorso dei “periodi di hype” delle città, che durano in media una ventina d’anni e a cui se non si riesce a rispondere, si rischia di rimanere sopraffatti. La sfida da lanciare oggi per contrastare questa depressione e questo declino è una nuova idea di città. Puntare in alto. Senza paura, e rischiare. Senza soluzioni di comodo. Senza manifestazioni di piazza per chiedere grandi opere inutili mettendo insieme un po’ di tutto strizzando l’occhio alle peggiori e più controverse esperienze che ci sono state in questa città (sì, sto parlando dell’operazione delle madamin, del mantra “Si Tav Subito” e il richiamo alla marcia dei quarantamila). Tornare a essere città dell’avanguardia, della tensione che fa nascere il nuovo, dei confronti che generano occasioni. Se invece ci limiteremo a proporre una nuova gestione dell’esistente e una diversa ragioneria burocratica per far andare solo leggermente meglio la macchina, allora forse è il caso di rassegnarci e tornare a dormire.