Nell’ottobre del 2017, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rispondendo a uno studente che gli chiedeva come si comportasse quando gli veniva sottoposto per la firma un atto che disapprovava, rispose: «se non lo condivido appieno, ho il dovere di firmarlo, anche se la penso diversamente». C’è solo «un caso in cui posso – anzi devo – non firmare: quando arrivano leggi o atti amministrativi che contrastano palesemente, in maniera chiara, con la Costituzione». Questa affermazione spiega la promulgazione della legge di conversione del decreto Sicurezza bis: con la firma di tale legge, Mattarella ha attestato che essa non presenta vizi di incostituzionalità palesi. Eppure, sono molti i profili che lasciano perplessi, e non solo sul piano del diritto.
Serve verificare, innanzitutto, cosa avrebbe potuto fare il Capo dello Stato, in base a quanto previsto dalla Costituzione. Secondo l’art. 74, “Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”. In altri termini, come spiegato dallo stesso Mattarella nella risposta allo studente, il Capo dello Stato può rimandare al Parlamento l’atto normativo sottoposto alla sua firma, indicandone i motivi. Ma se le Camere lo riapprovano senza tenere conto delle sue indicazioni, esso va promulgato comunque.
Sfugge come il richiamo del Presidente al sacrosanto obbligo di salvataggio possa conciliarsi con la sua firma a una legge che ostacola la conclusione del salvataggio stesso
Mattarella ha firmato la legge di conversione del decreto Sicurezza bis, così attestando che non presentava vizi evidenti di incostituzionalità, come detto: ma, al contempo, ne ha accompagnato la promulgazione con una lettera che esprime pesanti rilievi, tanto da chiedere al Parlamento di apportarvi talune correzioni. Con riferimento alle disposizioni sull’immigrazione, il Capo dello Stato ha, infatti, sottolineato che “nel caso di violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali (…) la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 volte nel massimo” rispetto a quanto previsto nel decreto-legge (e la confisca della nave “non risulta più subordinata alla reiterazione della condotta”). Si tratta di una sanzione sostanzialmente penale, applicata da un’autorità amministrativa, alla cui “discrezionalità” è rimessa “la valutazione di un comportamento che conduce a sanzioni di tale gravità” senza che siano indicati nella legge criteri cui attenersi (“tipologia delle navi”, “condotta concretamente posta in essere”, “ragioni della presenza di persone accolte a bordo e trasportate”): da ciò consegue la mancanza di proporzionalità tra pene e comportamenti, che invece è necessaria, come ribadito recentemente dalla Corte Costituzionale.
A ciò si aggiunga un altro profilo che lascia perplessi. La lettera del Presidente ribadisce che, nell’applicazione della disciplina, deve essere rispettato l’obbligo di prestare “soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”, previsto dalla Convenzione di Montego Bay, richiamata nella normativa stessa. Ebbene, com’è noto, le operazioni di soccorso in mare si concludono con lo sbarco in un “place of safety”, non essendo sufficiente il soddisfacimento a bordo delle necessità umane primarie, come cibo, alloggio e cure mediche (convenzione Sar e Linee Guida IMO). Sfugge come il richiamo del Presidente al sacrosanto obbligo di salvataggio possa conciliarsi con la sua firma a una legge che ostacola la conclusione del salvataggio stesso, attribuendo al ministro dell’Interno (di concerto con i ministri della Difesa e delle Infrastrutture) il potere di fermare le operazioni ad esso connesse, con il divieto di entrata in porto.
Ciò è emerso in concreto nel caso Sea Watch 3, quando la comandante Rackete, per concludere le operazioni di soccorso, dovette violare il divieto fondato sul decreto Sicurezza bis: peraltro, una pronuncia giudiziale ha già confermato la legittimità della sua condotta. A fronte dei rilievi contenuti nella lettera di Mattarella riguardo a profili la cui legittimità è dubbia – e non solo per la parte della legge relativa all’immigrazione – nonché in base alle considerazioni sopra svolte, ci si chiede se un atto non vincolante, come la nota di accompagnamento alla promulgazione, possa essere sufficiente a costituire quella garanzia che il Capo dello Stato deve assicurare. Ci si chiede, altresì, se il non rimandare alle Camere la legge di conversione del decreto Sicurezza bis sia stata una scelta adottata in punto di diritto o di opportunità.
Sarebbe stato meglio che la decisione del Capo dello Stato fosse adottata solo sul piano giuridico, cioè tutelando esclusivamente il diritto, senza tenere conto di (sia pur valide) considerazioni di tipo politico
Per rispondere, vanno tenute in considerazione anche questioni attinenti a un piano diverso da quello giuridico. La firma del Presidente è intervenuta quando la crisi di governo, pur non essendo ancora ufficiale, era già stata inequivocabilmente preannunciata dal ministro dell’Interno. Se Mattarella avesse rinviato la legge alle Camere in concomitanza con la chiusura delle stesse per la pausa estiva e con la crisi, il Parlamento non avrebbe forse avuto i tempi tecnici neanche per rimandare al Presidente la legge in firma senza alcun cambiamento (il 13 agosto era il limite per la conversione del decreto-legge Sicurezza bis). Cioè, rinviando la legge alle Camere, il Presidente ne avrebbe causato il venir meno per la scadenza dei termini. Se ciò fosse accaduto, si può ipotizzare che il leader della Lega avrebbe avuto uno strumento da agitare contro il Presidente della Repubblica, “reo” di aver approfittato del contesto e scientemente impedito il varo di una legge voluta dal Parlamento, espressione del popolo sovrano; si può pure ipotizzare che questo argomento avrebbe depotenziato la figura del Capo dello Stato specie in un momento – la crisi di governo – in cui, per il ruolo che egli riveste, è necessario sia salvaguardata la sua autorevolezza. Da un punto di vista opposto, invece, si potrebbe affermare che, con il varo della legge di conversione del decreto Sicurezza bis, il Presidente della Repubblica abbia fornito al leader leghista un nuovo successo da ostentare nella prossima campagna elettorale: non solo perché tale legge gli consente di proseguire le sue politiche contro l’immigrazione, ma soprattutto perché la firma del Capo dello Stato permette a Salvini e ai suoi seguaci di controbattere alle obiezioni di chiunque evidenzi i profili critici della normativa, vantando il suggello del Quirinale. In altri termini, se pure la Consulta tra qualche tempo potrà dichiarare l’incostituzionalità di alcune disposizioni, a chi oggi osi criticare le problematicità della disciplina il leghista di turno replicherà che Mattarella l’ha firmata, e tanto basta.
In conclusione – e riassumendo – se il Presidente avesse rimandato la legge in Parlamento, facendola così decadere, ciò forse avrebbe rafforzato Salvini. Parimenti, forse rafforzerà Salvini il fatto che il Presidente abbia firmato la legge, accompagnandola con una lettera priva di forza cogente. Pertanto, dato che sul piano politico si entra in un vicolo cieco qualunque direzione si prenda, sarebbe stato meglio che la decisione del Capo dello Stato fosse adottata solo sul piano giuridico, cioè tutelando esclusivamente il diritto, senza tenere conto di (sia pur valide) considerazioni di tipo diverso. La democrazia funziona in base a un sistema di pesi e contrappesi: serve che la bilancia resti sempre ben tarata.