C’è un dato che negli ultimi mesi sembra dare ragione al governo giallo-verde in campo economico e che apparentemente smentisce alcune previsioni pessimiste. È quello dell’occupazione, in particolare quella non precaria. In seguito al decreto dignità che impone più restrizioni al lavoro temporaneo, infatti, vi è stato un aumento dei dipendenti a tempo indeterminato, che hanno raggiunto a giugno il record di 15 milioni e 53mila, in crescita di 177 mila unità rispetto all’anno scorso. È dall’ultimo autunno-inverno che si è rovesciata la tendenza alla diminuzione o perlomeno allo stallo dei posti di lavoro permanenti, che nel 2019 hanno avuto un’accelerazione. Parliamo sempre di numeri piccoli in proporzione a quelli degli altri Paesi, e certamente vi è un aumento del part-time da considerare, ma vista la crescita zero del Pil, i dati possono anche stupire in positivo.
E tuttavia vi è un aspetto in questi progressi che forse i principali promotori del decreto dignità, Di Maio e il Movimento 5 Stelle, non avevano previsto. Ovvero un impatto molto diseguale a livello geografico, forse addirittura opposto a quello desiderato, visto che ad averne beneficiato è stato solo il Centro-Nord, mentre nel Mezzogiorno, serbatoio fenomenale di voti per i pentastellati, i posti a tempo indeterminato hanno al contrario accelerato il proprio calo.
Diciamolo, è da tanto, da ben prima della crisi del 2008/2009 che il Sud e le Isole non riescono a tenere il passo a livello occupazionale. Rispetto a 15 anni fa i lavoratori sono aumentati del 10,6% a livello nazionale, del 18,3% al Centro e rispettivamente del 14,1% e del 15,4% nel Nordovest e nel Nordest, mentre nel Mezzogiorno si è verificato un calo del 2,4%, che diventa del 9,3% se si guarda solo ai lavoratori a tempo indeterminato, che invece a livello nazionale nello stesso lasso di tempo sono cresciuti del 4%. Ed è proprio sull’occupazione permanente si trovano maggiori differenze tra il Sud e il resto d’Italia.
Negli ultimi mesi, in particolare, vi è stato un ulteriore peggioramente di questo divario. Rispetto al secondo trimestre del 2018, ovvero prima dell’annuncio del decreto dignità, avvenuto all’inizio dell’estate dell’anno scorso (poi entrato in vigore a novembre), nella primavera del 2019 i dipendenti a tempo indeterminato sono calati del 3,1% nel Mezzogiorno, mentre sono cresciuti dell’1,2% al Nordest e del 0,9% al Nordovest. Si tratta di 113.800 meridionali in meno assunti in modo permanente.
Insomma, non solo non c’è stata alcuna inversione di tendenza, ma questo ultimo periodo si è rivelato come il peggiore per il Sud in termini occupazionali, soprattutto rispetto al resto d’Italia. Dalla ripresa del 2013 in poi, malgrado il Mezzogiorno se la fosse cavata un po’ peggio rispetto al Centro e al Nord, non vi erano stati crolli dell’occupazione a tempo indeterminato, così come nel resto del Paese non vi erano stati grandi aumenti.
Anzi, nel periodo della decontribuzione delle assunzioni a tempo indeterminato tra 2015 e 2016 il Mezzogiorno aveva quasi colmato il gap con il resto del Paese, con una crescita di più di 160 mila unità, decisamente superiore a quella verificatasi altrove.
Dove hanno fallito le imposizioni del decreto dignità, avevano avuto successo gli incentivi delle decontribuzioni. L’inesorabile calo dei posti permanenti al Sud è avvenuto dopo, quando nel resto d’Italia questi rimanevano piuttosto stabili, e in particolare negli ultimi mesi, cioè da quando i lavoratori a tempo indeterminato al Centro e nel Nord hanno cominciato a crescere di nuovo.
E no, non si tratta di una conseguenza della crisi demografica del Mezzogiorno. Perchè se è vero che la popolazione è in diminuzione e così anche i lavoratori, comunque nelle statistiche sui posti a tempo determinato non si riscontrano gli stessi divari tra le diverse aree del Paese.
Questo perché i lavoratori a tempo determinato sono aumentati all’incirca allo stesso modo, seguendo le dinamiche stagionali, in tutta Italia, Sud compreso. Il quale non è certo fanalino di coda in questo caso.
C’è un problema legato specificatamente all’occupazione a tempo indeterminato, in particolare quella dei giovani tra i 15 e i 34 anni, che dal secondo trimestre del 2018 è crollata del 6,1%, mentre al Nord è aumentata.
In questo caso, la differenza tra Mezzogiorno e resto d’Italia è ancora maggiore rispetto alle altre fasce di età. Confrontando il -6,1% del Mezzogiorno con il -1,6% nazionale, infatti, si nota come il divario sia molto più evidente rispetto a quello che si verifica nella fascia di età tra i 45 e i 54 anni, dove la diminuzione del 2,1% del Sud fa il paio con il +1,4% italiano, e ancora di più tra i 55 e i 64 anni, segmento di età in cui ovunque i posti permanenti aumentano, anche al Sud: +0,3% nel meridione e +1,7% in Italia.
Fino al 2018, però, l’andamento dell’occupazione giovanile a tempo indeterminato nel Mezzogiorno non aveva seguito dinamiche diverse da quello nazionale. È solo in quest’ultimo anno che ha subito un crollo che altrove non si è verificato.
Insomma, la cosa ha un che di ironico: proprio il partito che è andato al governo grazie al voto di massa dei giovani del Mezzogiorno vara un decreto che alla prova dei fatti favorisce quasi solo i settentrionali over 45 ed è proprio da quando quel decreto è entrato in vigore che sono peggiorate, come mai avevano fatto negli ultimi anni, le opportunità occupazionali dei giovani meridionali.
La realtà è che quando vi sono imposizioni e divieti, e non incentivi, sono solo le aziende più attrezzate, quelle più grandi e produttive che possono adeguarsi, trasformando i contratti temporanei in permanenti, magari preferendo farlo per il personale con maggiore esperienza, più che con i giovani. I quali, di fatto, vengono sacrificati, a maggior ragione se vivono in aree già sfortunate.
Piccola consolazione, potranno chiedere il reddito di cittadinanza, altro strumento ideato dagli stessi che non hanno saputo dare loro un lavoro e in alcuni casi con il decreto dignità glielo hanno tolto. Chissà cosa avrebbero preferito tra quello e un vero posto di lavoro.