Segreti. Opacità. Una società che si basa sempre più sul controllo delle informazioni e la sorveglianza totale. Le contraddizioni e i rischi sono sotto gli occhi di tutti, ma sembriamo essere entrati davvero dentro quello che negli scorsi giorni abbiamo definito un “cortocircuito”. Attorno all’uso politico dei segreti e alla gestione della sorveglianza di stato si gioca una battaglia fatta di disobbedienza civile che negli ultimi anni abbiamo imparato a riconoscere attraverso persone come Edward Snowden, Chelsea Manning e Julian Assange. Whistleblower. Persone che hanno deciso di “vuotare il sacco” e dire le cose come stanno rinunciando a tutto e diventando nemici pubblici numero 1. È attorno a queste storie che ruota Leaks (LUISS University Press), il lavoro con cui Philip Di Salvo (giornalista per Wired e ricercatore presso l’Università della Svizzera italiana) cerca di tracciare un bilancio di questi ultimi anni. Ne abbiamo parlato con lui.
Leaks ricostruisce molto bene il dibattito attorno al whistleblowing. E offre la possibilità di approfondire un tema cruciale di questo temo che, però, non sembra quasi mai accendere più di tanto l’opinione pubblica. Secondo te come mai?
Per lo specifico italiano ci sono motivazioni diverse. La principale è che manca in Italia un termine che renda bene il concetto del whistleblowing. Non abbiamo nemmeno una parola nella nostra lingua. Questo rende difficile far passare il concetto nel dibattito pubblico e nella cultura, che di certo non brilla per sostegno alle pratiche di trasparenza. Dal 2017 abbiamo una legge sul whistleblowing, che ha introdotto tutele e garanzie per chi decide di denunciare. È un buon punto di partenza. Quanto ai casi che tratto nel libro, invece, pesa la complessità dei temi coinvolti e la poca attenzione dei media. Tutte queste vicende hanno toccato anche l’Italia in qualche modo, in particolare il caso Snowden, eppure non ricordo un talk show sul tema o un intervento sostanziale da parte del Parlamento. Serve ancora un ribaltamento di paradigma: i temi digitali sono politici nel senso più vasto del termine non solo “tecnici”.
Infatti credo anche io che la faccenda sia veramente politica. Snowden più di tutti ha scoperchiato il vaso di Pandora su questa epoca di paranoia dove sembra che la sorveglianza e la sicurezza siano le uniche parole d’ordine che la politica istituzionale sembra riconoscere. Nei tuoi studi come hai letto questa escalation? E perché è stato fondamentale l’atto “etico” e “morale” dei whistleblower?
Snowden ha portato elementi di prova senza precedenti che potessero attestare la pervasività della sorveglianza di massa sulla rete e dei programmi a disposizione dei governi, anche democratici, per controllare il traffico Internet e non solo. Non è stato il primo whistleblower a parlare dall’interno degli ambienti dell’intelligence statunitense — ricordiamo anche William Binney e Thomas Drake nei primi anni 2000 — ma è stato il primo a portare all’attenzione pubblica una mole tale di materiale. Di nuovo, la sorveglianza non riguarda solo internet, è una forma di governo e un elemento strutturante della società contemporanea. David Lyon direbbe che è una “cultura”, anche. Ecco, Snowden ha gettato luce su un elemento strutturante della società contemporanea e sui rischi che questo pone alla democrazia. Non a caso la ricercatrice Lina Dencik, citando proprio Mark Fisher, parla di “realismo della sorveglianza” per indicare l’atmosfera pervasiva che avvolge le azioni dei governi, delle aziende e della stessa rete.
Il whistleblowing è spesso sintomo di un sistema che non funziona e questo è certamente uno di quelli
Per quanto riguarda i governi, cosa ha comportato il whistleblowing?
Il whistleblowing è spesso sintomo di un sistema che non funziona e questo è certamente uno di quelli. Nel caso della sorveglianza governativa è servito un whistleblower come Snowden perché il livello di segreto attorno a questi programmi e a queste attività — soprattutto dopo l’11 Settembre — è altissimo e, spesso, un abuso. Il dibattito sulla “overclassification” è molto forte negli Stati Uniti e, a questo proposito, la sorveglianza fa capo ad altre azioni che sono figlie della Guerra al Terrore e del suo paradigma, come le guerre segrete dei droni. Per quanto non sia un sostenitore della trasparenza assoluta una società oscura, i cui funzionamenti sono celati, è per definizione portata a essere una società di abusi.
Il ruolo degli Stati Uniti è stato fondamentale. Sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista culturale e politico. In questo oltre a Snowden ovviamente entra in gioco un altro personaggio che ha cercato di rovesciare la narrazione sugli Stati Uniti in anni in cui stavano diventando così pervasivi. Julian Assange con Wikileaks
Su Julian Assange spero che Emmanuel Carrère scriva prima o poi un nuovo Limonov! Assange è uno dei personaggi più divisivi del mondo, nonché quello che ha seguito una delle parabole più incredibili degli ultimi anni. Difficile riassumerlo o identificarlo con categorie nette e la sua relazione con WikiLeaks è simbiotica. Di sicuro il 2016 è stato un anno di svolta, in cui gli elementi più controversi del personaggio sono venuti a galla nel modo più dirompente. È un fatto che WikiLeaks abbia pubblicato materiali provenienti da un hackeraggio perpetuato dai servizi di intelligence russi e che il rilascio di quei documenti sia stato gestito in modo poco trasparente e responsabile da parte dell’organizzazione. I contatti tra Assange, Trump Jr. e Roger Stone, a loro volta conclamati, si sono aggiunti a rendere lo scenario ancora più disturbante. Il Rapporto Mueller, al momento il testo con gli elementi forensici più estesi sulla materia, non ha indicato ad ogni modo attività illegali e una recente sentenza ha scagionato WikiLeaks da una causa penale intentata dal Comitato Nazionale dei Democratici Usa per la pubblicazione di quelle mail. Ampie parti del Rapporto Mueller sono ancora coperte da segreto, ad ogni modo.
L’arresto invece?
L’arresto di Assange è dovuto a capi di imputazione che si rifanno alle attività del 2010, quando WikiLeaks pubblico i materiali forniti da Chelsea Manning. Per quanto Assange sia indifendibile da diversi punti di vista, una sua eventuale condanna per la pubblicazione di materiali coperti da segreto creerebbe un pericoloso precedente per la stampa. Per questo motivo, difendere Assange da quelle accuse è ancora una battaglia importante.
Ci serve un web diverso e sta a noi costruirlo, senza nostalgie. Serve un web che abbia al centro le persone e non necessariamente le esigenze e i modelli di business delle grandi piattaforme. Serve, prima di tutto, una ridistribuzione di potere
Hai citato Chelsea Manning, a cui dedichi un capitolo.
Chelsea Manning è la whistleblower per eccellenza della sua generazione. Un simbolo di diverse battaglie politiche, identitarie, di resistenza. Manning è davvero una sintesi di cose che non esito a definire epocali. La sua vicenda è paradigmatica anche dei rischi cui si espongono i whistleblower quando si mettono al servizio del pubblico e le conseguenze che Manning sta ancora passando sono drammatiche. Saperla in carcere nuovamente, dopo averla incontrata un anno fa, mi spaventa: Manning ha tentato il suicidio due volte in carcere e torna ora dietro le sbarre mentre era nel mezzo del percorso necessario a iniziare una nuova vita, finalmente da donna libera. La sua situazione è kafkiana e, purtroppo, non vedo soluzioni all’orizzonte. A oggi Manning è di nuovo in carcere da 147 giorni e su di lei pende una multa da 38mila dollari, destinata a crescere di 1000 ogni giorno in cui si rifiuterà di rispondere alle domande del Grand Jury. Lei ha però già detto che non risponderà a nessuna domanda. Ha la mia età (entrambi del 1987, ndr) e la sua storia è quella che mi ha portato a interessarmi a questi temi. Purtroppo, è una storia che dobbiamo ancora raccontare, perché è ancora aperta e riguarda tutti.
Mi sembra che dietro il whistleblowing si intreccino diversi battaglie di natura politica, identitaria, sociale. E più in generale questo mette a rischio la narrazione e la retorica della società del controllo. Tu lo dici chiaramente: il whistleblowing è uno strumento di lotta, disobbedienza e battaglia per la libertà
Di sicuro lo può essere, ma troppo spesso si tende a dare al web (a cosa di preciso poi, del web?) alcuni valori in modo deterministico. La retorica della Silicon Valley è una finzione pericolosa e le visioni più distopiche, che vedono il web come responsabile di tutti i mali della democrazia, sono miopi e fuorvianti. Il web ha molti problemi, oggi, e molti di questi nascono dalle disfunzionalità della grandi piattaforme e del modello data-centrico nato con la pubblicità personalizzata e l’analisi dei dati. Che poi è il modello di business delle grandi piattaforme. Rebecca MacKinnon fa spesso un’analogia potente tra questo mondo e quello dei combustibili fossili: forse è ora di lasciarcelo alle spalle. I dati sono diventati però la moneta di qualsiasi cosa facciamo online, dalla lettura delle notizie al dating. Questo sistema è un sistema di sorveglianza; è un sistema poco sicuro ed è un sistema facilmente manipolabile, come ha dimostrato il caso Cambridge Analytica. Diversi attori malevoli, come l’alt-right negli Usa e i neofascisti in Europa, sono riusciti a sfruttare queste falle meglio di altri: purtroppo, l’amplificazione di questi messaggi su Facebook è una feature, non un bug. È clickbaiting portato all’estremo, è il modello dei gattini usato per fare propaganda. Detto questo, per quanto il problema sia evidente, non credo sia la ragione per la quale Trump sia alla Casa Bianca o il Regno Unito abbia un piede fuori dall’Unione Europea. Non c’è evidenza per sostenere che queste cose siano avvenute per via del web. Sicuro ci serve un web diverso e sta a noi costruirlo, senza nostalgie. Serve un web che abbia al centro le persone e non necessariamente le esigenze e i modelli di business delle grandi piattaforme. Serve, prima di tutto, una ridistribuzione di potere.
E in che modo il whistleblowing può aiutarci a uscire da questo scenario?
Il whistleblowing ha portato, con Snowden in particolare, elementi fondamentali per far partire dibattiti cruciali e ha imposto dei frame interpretativi che ci hanno concesso di vedere alcune questioni che non erano state trattate per anni, a cominciare dalla sorveglianza, dalle falle dell’economia dei dati, o del Capitalismo della Sorveglianza. Il whistleblowing serve perché anche qui c’è un eccesso di segreto: troppi elementi strutturanti della società odierna sono, di fatto, segreti aziendali. Penso sarà normale veder crescere i leak provenienti dalle grandi aziende tech perché da là passano moltissime questioni pubbliche. Frank Pasquale ha parlato di “black box society” ed è una delle definizioni migliori fornite dalla sociologia: viviamo in un mondo che funziona in modo oscuro, e spesso contro di noi. Oggi si parla molto — anche se spesso in modo sensazionalistico — dei problemi di Facebook perché il caso Cambridge Analytica ha imposto un frame interpretativo. Serve un Get Together di giornalismo, attivismo e cittadinanza per spingere per l’apertura delle troppe black box dentro cui siamo chiusi.