Bacioni al ParlamentoIl trappolone è servito: ecco tutti gli ostacoli per impedire a Salvini di andare alle elezioni

Casellati forza le tappe e impone il voto oggi alle 18 in Senato per stabilire il calendario della crisi. Per il 20 agosto è prevista la comunicazione di Conte in Aula che però non si è ancora dimesso. Pd e M5S allungano i tempi della crisi a colpi di regolamento

ANDREAS SOLARO / AFP

Questa doveva essere la legislatura della Terza Repubblica, ma a giudicare dalle mozioni, i regolamenti e le ripicche a colpi di cavilli sembra di essere ancora intrappolati nella Prima. C’è una sfumatura di politica novecentesca nello scontro di ieri avvenuto alla conferenza dei capigruppo del Senato. I rappresentanti di tutti i partiti si sono riuniti per decidere la data in cui votare la mozione di sfiducia contro il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Serviva l’unanimità, ma non c’è stata. E la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati ha deciso di non decidere, lasciando all’Aula oggi alle 18 il compito di stabilire quando e se si voterà la mozione di sfiducia. «L’articolo 55, comma 3, prevede che sulle proposte di modifica del calendario decida esclusivamente l’Assemblea, che è sovrana. Non il presidente» si è giustificata Casellati. Un po’ Ponzio Pilato, un po’ Azzeccagarbugli, un po’ una mano all’alleato Matteo Salvini. Ci si chiede a cosa serve avere una presidente del Senato se poi tocca all’Aula decidere quando votare. Con lo scontro di ieri sono diventati palesi i due schieramenti. Da una parte il blocco del centrodestra vuole accelerare e andare subito alle elezioni. Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia chiedono di votare la mozione di sfiducia a Conte domani, lo stesso giorno dell’anniversario del crollo del Ponte Morandi di Genova. Dall’altro il blocco formato dalla fazione renziana del Partito democratico, Movimento Cinque Stelle, Liberi e uguali e alcuni senatori del gruppo Misto che vuole frenare e chiede di approvare un calendario che sposti la crisi almeno di una settimana. Finora la maggioranza dei voti in Senato è formata dalla santa alleanza contro le elezioni, compatta nel voler rallentare ma divisa su quali mozioni votare o non votare.

Ed ecco qui il secondo enigma da risolvere per gli italiani che cercavano un po’ di pace sotto l’ombrellone e si ritrovano a leggere trame alla House of Cards. Il Senato oggi alle 18 dovrà confermare anche un’altra tappa sul calendario della crisi. Ovvero decidere se Conte, potrà intervenire in Senato il prossimo 20 agosto per delle “comunicazioni” all’Aula. Avete letto bene, non mozione di sfiducia ma una semplice comunicazione. Come se al suo Governo non fosse accaduto nulla e il presidente del Consiglio dovesse solo riferire qualcosa alle Camere. Un modo per allontanare ancora di più il momento in cui questo governo sarà dichiarato ufficialmente morto. Mal di testa? È venuto anche a noi. Ricapitoliamo: oggi alle ore 18, i 139 senatori del centrodestra voteranno in Senato per votare subito la sfiducia a Conte il 14 agosto, ma sono in minoranza. Per questo i 159 senatori previsti di renziani del Pd, M5S, LeU e Misto si opporranno e faranno approvare il calendario che prevede la convocazione di Conte al 20 agosto per comunicare qualcosa che ancora non sappiamo, senza parlare, per ora, di alcuna mozione di sfiducia. Ma tra vacanze, defezioni, sgambetti e ripensamenti dell’ultimo minuto, nulla è scontato. Anche perché l’attuale segretario del Pd Nicola Zingaretti, vuole andare subito al voto, come Salvini. Ma il problema per Zingaretti è che la maggior parte dei senatori e dei deputati dem sono stati scelti da Renzi quando era segretario. E temono di non essere rieletti.

Il leader della Lega ha almeno quattro ostacoli davanti a sé: Luigi Di Maio, Matteo Renzi, Pietro Grasso e il tempo

Il voto di oggi al Senato è solo il primo di una serie di mine “parlamentari” piazzate sul cammino di Salvini verso il voto a ottobre. Il leader della Lega ha almeno quattro ostacoli davanti a sé: Luigi Di Maio, Matteo Renzi, Pietro Grasso e il tempo. In questa settimana i tre politici hanno piantato delle trappole politiche che potrebbero impedire le elezioni. Il primo è stato il capo politico del Movimento Cinque Stelle che ha proposto di votare per la quarta volta la riforma del taglio dei parlamentari prima della sfiducia a Conte. Se fosse approvata la legge che diminuisce da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori, si andrebbe al voto in primavera perché bisognerebbe dare almeno 90 giorni a deputati, senatori e consigli regionali per chiedere un referendum confermativo e altri tre per fissare il voto per approvare o bocciare questa riforma costituzionale. Per questo il presidente della Camera Roberto Fico ha riunito per oggi la conferenza dei capigruppo. A differenza dei colleghi del Senato i rappresentati di tutti i partiti alla Camera dovranno decidere quando votare la riforma costituzionale. La sensazione è che come Casellati, anche Fico forzerà la mano per la sua parte politica per votare il taglio dei parlamentari prima della mozione di sfiducia a Conte.

Nella guerriglia dei regolamenti parlamentari primeggia l’ex magistrato Pietro Grasso. Il senatore di Liberi e Uguali ha tracciato con una serie di post su Facebook la rotta da seguire per evitare il ritorno alle urne. Se il centrodestra riuscirà a calendarizzare la mozione di sfiducia a Conte prima del dovuto M5S, LeU, PD e alcuni del Misto dovranno abbandonare l’Aula per non far raggiungere il numero legale idoneo per votare. Poi, al momento utile, dovranno spingere il presidente del Consiglio alle dimissioni. L’obiettivo del magistrato è arrivare al voto con un altro governo, senza sottostare ai diktat di Salvini. Quindi Mattarella potrebbe rinviare Conte alla Camere o affidare a qualcuno il compito di cercare una nuova maggioranza. E proprio qui entra in gioco la terza mina parlamentare, quella di Matteo Renzi. Domenica, l’ex presidente del Consiglio in un’intervista al Corriere della Sera ha detto di voler appoggiare un governo istituzionale nominato dal presidente della Repubblica con l’appoggio esterno di Pd e M5S. Zingaretti ha già chiuso all’ipotesi e chiede di andare al voto, ma l’apertura palese di Renzi costringerà Mattarella a cercare un’altra maggioranza in Parlamento dopo le dimissioni di Conte. E ci vuole del tempo. Molto più tempo delle consultazioni lampo che si era immaginato Salvini quando ha annunciato la fine del governo.

Grillo, Di Maio e Renzi sperano che Mattarella si comporti come il predecessore Scalfaro che nel 1995 promise le elezioni a Berlusconi in cambio delle dimissioni e invece nominò il governo Dini. Il fenomeno Berlusconi si sgonfiò e l’Ulivo vinse le elezioni nel 1996. Ricordate però che poi il Cavaliere trionfò nel 2001. Chi di democrazia parlamentare ferisce di democrazia parlamentare perisce

Il quarto ostacolo è il tempo. Più passa, più si allontana la possibilità di andare al voto. Anche se con modi diversi, la santa alleanza anti Salvini ha l’obiettivo di far continuare a lungo la legislatura. La speranza è che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si comporti come il suo predecessore Oscar Luigi Scalfaro nel 1994. Il 20 dicembre di quell’anno, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si dimise perché la Lega guidata da Umberto Bossi, votò con le opposizioni (Pds e Ppi) la mozione di sfiducia contro di lui. Altri tempi. Berlusconi chiese a Scalfaro di sciogliere le Camere per andare subito alle elezioni visto che i sondaggi lo davano oltre il 30%. Il presidente della Repubblica promise che avrebbe messo un ministro di Berlusconi per qualche mese al governo per realizzare quattro punti essenziali per la tenuta dei conti prima di andare al voto. Il governo di Lamberto Dini durò più di un anno, il fenomeno Berlusconi si sgonfiò e l’Ulivo vinse le elezioni del 1996. Renzi, Di Maio, Grasso e Grillo sperano che Mattarella faccia lo stesso con Conte e che un governo di scopo rimanga in carica fino al 2023, togliendo visibilità e consenso a Salvini. Bisognerebbe però ricordare che Berlusconi perse nel 1996, ma cinque anni dopo trionfò alle elezioni e ottenne una delle maggioranze più ampie della storia repubblicana con il 49,56%. Chi di democrazia parlamentare ferisce, di democrazia parlamentare perisce.

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