Per tutti gli appassionati di musica la storia dell’Haçienda è una leggenda. Luogo mitico nato dall’ambizione — e dall’incoscienza — di Tony Wilson e Rob Gretton, rispettivamente deus ex machina della Factory Records (l’etichetta discografica che negli anni Ottanta ha letteralmente cambiato la veste della musica pop grazie a, tra gli altri, Joy Division, New Order, Happy Mondays, A Certain Ratio e Durutti Column) e manager proprio dei Joy Division e dei New Order, voleva essere un club monumentale, sempre aperto, capace di essere posto di trasformazione e produzione culturale, di accadimenti e situazioni. Sostanzialmente fu un mezzo flop, con i New Order (finanziatori in quanto una delle band più di successo degli anni Ottanta: mai sentito parlare di Blue Monday?) a perderci un sacco di soldi grazie a serate vuote, concerti che non attiravano nessuno e costi del personale e di manutenzione alle stelle. Poi arriva l’acid-house e tutto cambia: «Stanno applaudendo il DJ. Non la musica, non il musicista, non il creatore, ma il mezzo. Ecco qui. La nascita della cultura rave. La beatificazione del beat. L’età della dance. Questo è il momento in cui anche l’uomo bianco inizia a ballare. Benvenuti a Madchester», dice il personaggio di Tony Wilson interpretato da Steve Coogan in 24 Hour Party People (2002, Michael Winterbottom), e in effetti da quel momento per il club le cose si mettono meglio: meno costi, e locale sempre pieno. Tutto bene? Niente affatto. Arriveranno problemi di criminalità, problemi con il fisco, problemi di buon vicinato. l’inevitabile chiurusa. Insomma, tutto quello che potete immaginare quando gestite un club grosso come un isolato e siete sostanzialmente persone da cui nemmeno voi comprereste un auto usata (ma da cui vorreste sempre sentire ottima musica).
In Haçienda, come non si gestisce un club (Luiss University Press, traduzione di Chiara Veltri), libro dedicato a quest’esperienza scritto da Peter Hook, bassista dei Joy Division e dei New Order, non si legge solo la vicenda di un club che merita di stare tra i luoghi più simbolici e importanti per la cultura pop, ma una vera e propria testimonianza di un momento di cambiamento o, per lo meno, di tentativo di “reazione” a un periodo storico non proprio felice. Attraverso la storia dell’Haçienda (ah, come tutte le cose create dalla Factory Records, aveva un numero “di catalogo”: FAC51, come fosse un disco), infatti, si legge la storia di un periodo storico, quello dell’Inghilterra degli anni Ottanta, con il suo portato artistico rivoluzionario di etichette, gruppi e personaggi (di cui anche su queste pagine abbiamo più volte scritto) che non si sono mai rassegnati al mainstream, all’universo di Margaret Thatcher e alla musica mediocre; ma anche al storia di una città, Manchester, che attraverso l’arte e la new wave e luoghi come l’Haçienda ha in qualche modo superato il collasso della sua Età dell’Oro Industriale. Un destino, questo, che tra anni Settanta e Ottanta accomunava molte ghost town inglesi: da Leeds a Sheffield, un giorno bisognerà recuperare quel modo di intendere l’arte come servizio e promozione della comunità, una via per uscire dalla “depressione” e dall’inevitabile capitalizzazione della vita urbana.
«Se devi sprecare un’occasione, devi ricordare alcune cose importanti. Fallo con stile. Fallo pubblicamente. E soprattutto fallo a Manchester»
Una delle frasi più belle del libro è proprio quella che dice: «Se devi sprecare un’occasione, devi ricordare alcune cose importanti. Fallo con stile. Fallo pubblicamente. E soprattutto fallo a Manchester». C’è un orgoglio che non è semplicemente local, ma vuole dire che ogni luogo una peculiarità e un’attitudine che si deve vedere nel modo in cui si produce e di divulga l’arte, la musica, la letteratura, ma anche il modo di vivere e di stare al mondo. Se vogliamo, un antidoto contro l’omogeneizzazione della cultura, ormai rassegnata a trasformarsi nella manifestazione plastica dei non-luoghi che sono diventate le grandi città mondiali in cui si concentra la maggior parte della produzione artistica contemporanea. A Manchester, ad esempio, non si sono mai voluti piegare all’egemonia di Londra, così come negli Stati Uniti le scene che sono nate “ai margini” (non solo nelle ovvie Boston, Chicago o Detroit, ma pure Minneapolis e Chapel Hill, nel North Carolina) hanno sempre cercato di mantenere una unicità a livello di suono, di attitudine, di “modo di fare le cose” per distinguersi rispetto a New York e Los Angeles. Una ricchezza che nella produzione permette dialogo, tensione e crescita, e che può essere fatta probabilmente solo a patto di un’incoscienza di base che rifiuta calcoli, conti e regole.
Al netto del fatto che Haçienda è davvero un manuale che ti fa capire come non fare le cose, resta comunque un libro in grado di far passare il messaggio che solo attraverso la passione e l’inseguimento di un’idea giusta — almeno nella testa di chi la pensa — si può fare qualcosa di grandioso e cambiare, almeno un minimo le cose. E in un periodo storico in cui tutto, anche la musica, sembra inevitabile, inesorabile, fatto, scritto e pensato con il pilota automatico, riscoprire il senso di libertà e incoscienza che stava alla base di questa esperienza contradditoria ma grandiosa (ora sempre normale, ma negli anni Novanta non era cosa da tutti attirare gente da tutta Europa per farsi le serate e vivere il momento) può essere davvero la chiave per approcciarsi meglio al nostro spaventoso futuro.