Aprite i porti (forse)Migranti, tutto ciò che non funziona nei decreti sicurezza di Matteo Salvini

M5S e Pd dicono di voler combattere contro il traffico di esseri umani e l’immigrazione clandestina. Bisogna quindi decidere cosa cambiare nei decreti sicurezza di Matteo Salvini. Tra protezione umanitaria e revoca della cittadinanza, nel discorso non mancherà neanche lo ius soli

GIOVANNI ISOLINO / AFP

Uno dei temi caratterizzanti l’azione del precedente governo è stato quello dell’immigrazione. Pertanto, non a caso tale tema è stato tra i più controversi nella ricerca dell’accordo per la formazione del nuovo esecutivo. I due attuali alleati partivano da posizioni opposte: Zingaretti pretendeva l’abolizione dei due decreti Sicurezza, convertiti in legge rispettivamente nel mese di dicembre 2018 e nello scorso agosto; mentre secondo Di Maio non aveva senso modificare i citati decreti, dei quali rivendicava la “ratio”. Alla fine Pd e 5S hanno trovato un’intesa, inserendo nel programma di governo, tra le altre cose, la “definizione di una organica normativa che persegua la lotta al traffico illegale di persone e all’immigrazione clandestina (…). La disciplina in materia di sicurezza dovrà essere rivisitata, alla luce delle recenti osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica”. Il punto è molto vago, perciò serve porsi due domande. Quando, in tema di immigrazione, si afferma di voler ”rivisitare” i decreti Sicurezza (ora legge) in conformità ai rilievi del Capo dello Stato cosa si intende, cioè quali disposizioni egli ha chiesto di modificare nelle sue lettere di accompagnamento ai testi? E la “definizione” di una normativa in tema di traffico di migranti significa che oggi tale normativa manca, cioè che non ci sono regole per accertare l’azione dei trafficanti? Si anticipano la risposte, che rendono palesi quanto vuote siano certe dichiarazioni pronunciate da esponenti politici in questi giorni: Mattarella ha chiesto espressamente di cambiare una sola norma su due leggi Sicurezza, per cui quando si parla delle “osservazioni formulate dal Presidente” si intende ben poca cosa; una disciplina tesa ad accertare il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina già esiste, ma nessuno pare essersene reso conto, dato che il governo si è posto l’obiettivo di definirne una, come se già non ci fosse. Con due articoli distinti, ciascuno per ogni legge Sicurezza, si proverà a spiegare queste affermazioni.

Circa il primo decreto, come accennato, nella lettera di accompagnamento il Presidente non ha indicato disposizioni specifiche da modificare. Eppure, le norme su cui intervenire sarebbero molte. Ad esempio, può citarsi quella che prevede la revoca della cittadinanza per gli stranieri condannati in via definitiva per alcuni reati: trattarli diversamente rispetto agli italiani per nascita, condannati per i medesimi reati, “significa creare un ordinamento separato sulla base dell’appartenenza etnica” perché, se l’acquisto della cittadinanza da parte dello straniero non è un diritto, una volta che egli l’abbia acquisita è un cittadino alla pari degli altri. Andrebbe modificata anche la disposizione che collega il rigetto della richiesta di protezione internazionale non a una sentenza definitiva di condanna, ma a una sentenza di primo grado o, addirittura, al mero avvio di un’indagine penale per taluni reati, in contrasto col principio di non colpevolezza (art. 27, c. 2, Cost.), nonché in violazione col diritto di difesa (art. 24, c. 2, Cost.) poiché in questo caso è prevista l’immediata esecutività del decreto di espulsione e quindi l’immigrato non può essere presente nell’eventuale processo di impugnazione. Andrebbe cancellata la norma che vieta l’iscrizione dei richiedenti asilo nel registro anagrafico dei residenti, per cui pende la questione di legittimità costituzionale. Servirebbe altresì intervenire sulla disposizione che eleva da due a quattro anni il termine per la conclusione dell’iter di acquisizione della cittadinanza: si tratta di un prolungamento irragionevole, motivato da una sorta di ostilità verso lo straniero, dato che nel procedimento in questione il Prefetto si limita ad accertare la sussistenza dei requisiti prescritti e l’assenza delle cause ostative di natura penale. Per lo stesso motivo andrebbe pure corretta la norma che, “per il rilascio degli estratti e dei certificati di stato civile occorrenti ai fini del riconoscimento della cittadinanza italiana”, prevede un termine di sei mesi dalla presentazione della richiesta da parte degli stranieri, dato che si tratta di documenti che gli italiani solitamente ottengono a vista.

È vero che l’eliminazione della protezione umanitaria ha ampliato la platea delle persone presenti illegalmente nel Paese, ma oggi sarebbe preferibile ricorrere prima ad altre azioni per aumentare i “regolari”, e produrre pure benefici ulteriori

Nella lettera con cui Mattarella ha accompagnato la firma del primo decreto Sicurezza, si rileva solo che «restano “fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato” e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione». Il rimando a quest’ultima norma potrebbe forse essere un modo per evidenziare la necessità di reintrodurre il permesso di soggiorno per motivi umanitari, abolito dal decreto stesso? Proviamo a spiegare. L’art. 10, c. 3, Cost. dispone un generale “diritto d’asilo nel territorio della Repubblica” allo straniero a cui “sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Prima del decreto dello scorso ottobre, tale norma era attuata dalle due forme di protezione internazionale – asilo politico e protezione sussidiaria – nonché dalla protezione umanitaria. Ora l’abolizione di quest’ultima lascerebbe parzialmente “scoperta” la previsione costituzionale, poiché gli altri tipi di permesso, di nuova introduzione e già presenti (per «protezione sociale», «violenza domestica», «sfruttamento lavorativo», «cure mediche», «calamità naturali», «atti di particolare valore civile») non coprono interamente l’ambito dei motivi umanitari.

Tuttavia, nella lettera del Presidente il ripristino della protezione umanitaria non è indicato in modo espresso: forse anche perché, se pur con maggiore difficoltà, l’art. 10, comma 3 Cost. può essere comunque applicato direttamente, cioè senza le norme attuative ora abrogate, e tutelare i diritti fondamentali degli stranieri. Detto questo, può comunque reputarsi che, al momento, reintrodurre la protezione umanitaria sia un fine prioritario? È vero che la sua eliminazione ha ampliato la platea delle persone presenti illegalmente nel Paese, ma oggi sarebbe preferibile ricorrere prima ad altre azioni per aumentare i “regolari”, e produrre pure benefici ulteriori. In particolare, come già esposto, servirebbe innanzitutto una sanatoria destinata a chi si trovi in Italia e non disponga di un permesso di soggiorno, ma abbia compiuto percorsi positivi di inclusione sociale e lavorativa. Essa consentirebbe, da un lato, di far entrare nelle casse dell’INPS contributi previdenziali ora sottratti dal lavoro nero di chi è privo di permesso; dall’altro lato, di produrre impatti positivi in termini di riduzione della criminalità degli immigrati illegali. Poi si dovrebbe utilizzare il cosiddetto decreto flussi in maniera effettiva, cioè per far entrare lavoratori non solo stagionali, mediante “una programmazione mirata e a lungo raggio, con flussi legati alle esigenze del mercato e con un efficace sistema di selezione degli arrivi”. Attraverso i due canali indicati, l’eventuale ripristino successivo della protezione umanitaria non avrebbe quella portata dirompente che qualcuno ipotizza.

Infine, nonostante non sia connessa con il tema dell’irregolarità, servirebbe avviare l’iter per l’approvazione della legge sullo ius soli-culturae. Tale legge, se fosse stata approvata anni fa, quando era in discussione, forse non avrebbe evitato quanto accaduto in questi mesi in materia di immigrazione. Tuttavia, se si è arrivati a questo punto, forse è anche perché non sono stati compiuti certi passi. Una cultura inclusiva non si fa per decreto, ma la legge può favorire certi atteggiamenti culturali.

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