Dal 2001 gli americani hanno speso 6mila miliardi di dollari per i conflitti in Medio Oriente, senza vincerne mezzo. Una spesa gigantesca per un risultato nullo. Per Trump gli interventi militari, vedi alla voce Afghanistan, non sono un buon affare in termini economici ed elettorali. L’approccio “muscolare” è una delle cause che ha portato il tycoon, dopo un’estate di divergenze e a un anno dalle elezioni, a licenziare il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, pronto a spingere l’inquilino della Casa Bianca in un pericoloso conflitto armato con l’Iran.
In realtà Trump sta conducendo una guerra sul fronte interno, contro l’ala interventista dei repubblicani, alla quale impone la linea dei negoziati a quella dei bombardamenti tanto cari allo zio Tom. Una strategia spesso inconcludente, considerati i sospesi con Kim “ The rocket man”, i talebani e Rohuani, solo per citarne alcuni. Nessuna fretta per Donald, non sempre colpevole della mancata risoluzione di situazioni molto complesse, che dovrebbe evitare, però, di deteriorare ulteriormente. Se la strategia di massima pressione contro Teheran, caldeggiata dal neo disoccupato Bolton, ha buone probabilità di vedere Trump e Rohuani sedersi allo stesso tavolo, ci chiediamo come mai l’abilità nucleare di Pyongyang sia notevolmente aumentata proprio a partire dall’incontro di Trump con Kim. Meccanismo che sarebbe bene non si ripetesse dopo il possibile meeting con il presidente iraniano, privo dell’atomica ma con un sogno nel cassetto.
La superiorità bellica americana è indiscutibile, ma rimane una carta coperta, brandita da Trump in un perpetuo bluff di minacce, che potrebbe essere smascherato proprio da chi è abituato ad andare in all-in: i terroristi islamici.
La superiorità bellica americana è indiscutibile, ma rimane una carta coperta, brandita da Trump in un perpetuo bluff di minacce, che potrebbe essere smascherato proprio da chi è abituato ad andare in all-in: i terroristi islamici. Nonostante abbia dichiarato, nella ricorrenza dell’11 settembre, di essere pronto a reagire con una forza inedita contro chiunque osi colpire l’America, la sensazione è che si stia rivolgendo più all’elettorato che agli estremisti, aprendo ufficialmente la campagna elettorale per il 2020. La nazione poliziotto, che negli ultimi 50 anni ha garantito una copertura militare agli alleati e una economica ai propri interessi – grazie all’esportazione di una democrazia a base di missili anticarro – oggi abbandona l’opzione militare al di là dei propri confini, entro i quali, però, incentiva l’utilizzo di armi, di cui vorrebbe dotare perfino gli insegnanti.
Gli americani devono considerare come e quanto i loro presidii sparsi per il pianeta, uniti a un costante monitoraggio della situazione, siano le leve indispensabili per mantenere la leadership mondiale,
Che gli americani inizino a domandarsi se sia il caso di bombardare qualunque nazione non vada loro a genio, finanziando guerre inutili e dispendiose, segna il passaggio di una comunità dall’età puerile a quella adolescenziale. Devono altresì considerare come e quanto i loro presidii sparsi per il pianeta, uniti a un costante monitoraggio della situazione, siano leve indispensabili per mantenere la leadership mondiale, in virtù della quale godono del benessere e dei privilegi cui sono abituati.
Il depauperamento delle relazioni internazionali della Casa Bianca denota una certa miopia in un’ipotetica era post-tycoon, nella quale la diplomazia americana dovrà scegliere se recidere il cordone ombelicale con le potenze alleate e non, oppure ricucirlo, a costo di ribaltare i rapporti di forza. La rinuncia alle proprie responsabilità assicura l’appoggio dei sostenitori dell’ America First alle prossime presidenziali, ma fornisce anche l’opportunità a Russia e Cina di allargare la propria sfera di influenza su territori tuttora inseriti nell’orbita Usa. Come l’Italia.