Solo Dio può dimettermi, la sua frase più celebre. Peccato però che sia arrivato prima l’esercito. La morte di Robert Mugabe chiude una stagione storica e politica dello Zimbabwe, retto però dal 2017 da un nuovo presidente Emmerson Mnangagwa. Una discontinuità più apparente più che sostanziale, visto che il nuovo leader mostra una patina di affidabilità agli investitori occidentali ma nessun reale cambio di passo rispetto al passato, da cui ha mutuato alcuni modi di gestione dell’ordine pubblico molto poco ortodossi. Per capire l’attualità bisogna però ricordare la storia di queesto Paese. Lo Zimbabwe è stato uno degli ultimi Paesi africani a rendersi indipendente dalla Gran Bretagna. Il 1980 fu un anno epocale per l’ex Rhodesia: l’apartheid venne cancellato e il Paese divenne finalmente libero, grazie anche all’apporto di Mugabe, che divenne il primo ministro di colore nella storia del suo Paese.
Lo Zimbabwe è così passato da essere il “granaio dell’Africa” a ultima locomotiva del continente.
Quasi una favola a lieto fine, in anticipo pure di 11 anni rispetto al Sudafrica e al celebrato Mandela. Da favola a film horror il passo però fu breve. Il massacro di 20 mila Ndebele, le ripetute elezioni truccate e le repressioni contro stampa e oppositori, l’iperinflazione che ha reso il dollaro zimbabwese carta straccia. Un vero fallimento, aggravato dai pessimi rapporti con i Paesi occidentali, verso cui periodicamente si scagliava Mugabe, e dalle frasi omofobe pronunciate davanti al mondo intero, come il celebre “Noi non siamo gay” all’Assemblea delle Nazioni Unite del 2015. Lo Zimbabwe è così passato da essere il “granaio dell’Africa” a ultima locomotiva del continente. Negli ultimi anni di potere Mugabe ha dovuto far fronte però a un dissenso interno sempre crescente, nonostante le repressioni. L’ultimo tentativo però gli è stato fatale. La cacciata del vicepresidente Mnangawa, soprannominato non a caso il coccodrillo per la scaltrezza e le lacrime, per far spazio alla moglie Grace ha fatto capire ai militari, che sostenevano il regime di Mugabe, che era tempo di agire.
L’inflazione, arrivata a giugno al 175%, mangia qualsiasi prospettiva di futuro per questo Paese, persino per i Cinesi
La presidenza ad interim di Mnangawa con le successive elezioni nell’agosto 2018 sembravano il primo passo verso un ritorno del paese alla normalità. Ma dei coccodrilli non bisogna fidarsi, mai. I tafferugli nella capitale Harare il giorno delle elezioni, i presunti casi di brogli e irregolarità testimoniano come il vento non fosse realmente cambiato. La riprova è data dalla denuncia di Amnesty International che testimonia lo stato attuale di repressione delle proteste nel Paese a seguito dell’aumento dei prezzi di benzina e petrolio del 150%, con il governo che ha denunciato la presenza di agenti sabotatori che fomentano i disordini. La differenza rispetto al passato praticamente non si vede: repressioni contro minoranze e omosessuali, blackout che arrivano sino a 18 ore, tagli ai turni nelle fabbriche e importazioni di energia non sempre regolari sono rimasti. Non va molto meglio per quanto riguarda l’iperinflazione: la nuova introduzione del dollaro zimbabwese, vista la penuria di dollari USA e la chiusura dei negozi per mancanza di merci e moneta, non ha migliorato l’economia. L’inflazione, arrivata a giugno al 175%, mangia qualsiasi prospettiva di futuro per questo Paese, persino per i Cinesi che nel corso degli anni hanno investito centinaia di milioni in Zimbabwe. Più che alle riforme politiche o economiche Mnangawa si è soprattutto preoccupato dei suoi nemici interni, come il comico Samantha Kureya, sequestrato e torturato, o il capo tribale Felix Ndiweni, arrestato dagli sgherri del presidente.
Insomma, la svolta tanto attesa sembra non essere arrivata. Tutto deve cambiare perché nulla cambi, sosteneva Tancredi Falconeri, nipote del Principe di Salina nel Gattopardo. E per lo Zimbabwe è proprio così. Alla fine, Mugabe e Mnangawa sono praticamente la stessa faccia della medaglia.