The Irishman, voglio dire. È chiaro che la storia del mafioso Usa Frank ‘The Irishman’ Sheeran, accusato di aver fatto fuori, nel 1975, il sindacalista doppiogiochista Jimmy Hoffa, aureolata dai tamburi del tramonto, sarebbe stata il testamento di Martin Scorsese, il canto definitivo, l’epopea angelica, il sigillo su quell’era micidiale che va dai Goodfellas (1990) a Casinò (1995), compreso il tentativo di fare ciò che non ha mai fatto, qualcosa che sta tra Il padrino e C’era una volta in America. Beh, il film è andato in onda al New York Film Festival venerdì scorso – sarà alla Festa del Cinema di Roma il 21 ottobre – ha commosso e convinto tutti, si sente odore di Oscar.
Il “New York Times” ha parlato di “elegia monumentale”; il “Guardian” di un film “realizzato con amorevole precisione e cura ossessiva per il dettaglio”. Martin Scorsese, che centellina i film (l’ultimo, Silence, è del 2016; The Wolf of Wall Street è del 2013), crea soltanto grandi progetti di cinema-romanzo, poi si piazza sulla soglia come i giaguari. The Irishman lo ipotizza dal 2007, attendeva i soldi, li ha munti da Netflix: 159 milioni di dollari per un feuilleton da 209 minuti. Scenografia risolta da un esperto come Steven Zaillian – Oscar per Schindler’s List, ha scritto Risvegli e The Interpreter, per Scorsese ha elaborato Gangs of New York – in scena l’attore-feticcio di Scorsese, Robert De Niro, finalmente grande dopo troppi film non all’altezza, e Al Pacino (anche lui perso in una filmografia liminale, sostanzialmente inutile). Il primo è ‘The Irishman’, l’altro Hoffa. “Il vero asso, però, è il quieto, elettrificante Joe Pesci, che torna al cinema da cui è assente dal 2010 con un personaggio drammatico, razionale, perfetto”, scrive Benjamin Lee. Su tutto, soprattutto, il morbo del rammarico, “la patetica vacuità del crimine, di uomini che confondono le priorità della vita per accorgersene troppo tardi… la violenza non è glamour, qui, ma tragica, esemplificata da antieroi che si caricano sulle spalle i propri relitti”.