I FIGLI DEL DEBITONon è colpa dell’Europa, ma del debito pubblico. Ecco come ci siamo giocati la nostra sovranità

Come è possibile che una generazione abbia ipotecato il futuro di un Paese (compreso quello dei loro figli)? Come è potuto succedere che, per pagare gli interessi, l’Italia sia finita in trappola? È la vera emergenza, ma nessuno fa niente

Julio Cesar AGUILAR / AFP

Noi siamo i figli del debito, siamo la Debt Generation, noi siamo quelli che hanno dovuto cominciare a restituire i soldi, siamo quelli a cui hanno lasciato in eredità la bancarotta.

Quando sono nato, nel 1982, avevo sulle spalle un debito di circa 3000 euro, ma quando sono arrivato a votare, cioè da quando io e i miei coetanei possiamo ritenerci corresponsabili della vita pubblica del paese, il debito pro capite era già di quasi 23 mila euro e il palazzo già in fiamme. Io e i miei compagni di scuola siamo arrivati a votare e a lavorare quando era già cominciata la corsa a spegnere l’incendio. Il falò del debito pubblico ha divorato ogni sforzo, ridotto in cenere ogni sacrificio.

Qui si parla di questo: come è successo che per amore ed egoismo, la generazione che ci ha preceduto? Come è successo che quando a vent’anni ci siamo affacciati alla vita pubblica fosse già finita la festa, già tutto deciso, chiuso ogni margine di manovra e spazzolato fino all’ultimo euro presente e futuro? E che cosa comporta tutto ciò, per le nostre carriere, per la nostra stabilità lavorativa, per la possibilità di realizzare una famiglia e per la sorte di molte industrie italiane?

A guardare la curva del debito è impressionante il modo in cui ci siamo giocati il paese nell’arco di una quindicina d’anni. È impressionante come ci è stato soffiato sotto al naso. Come ci è stata soffiata la futura possibilità di compiere vere scelte politiche, le assunzioni a tempo indeterminato, gli avanzamenti di carriera, tutti i futuri aumenti di stipendio. Ci è stata soffiata la sovranità. E no: non dall’Europa come molti movimenti politici in questi anni hanno detto. No, ci è stata soffiata da chi ci stava più vicino, dalle persone che ci sono più care, da quelle a cui ci affideremmo nel momento del bisogno. Ci è stata soffiata dai nostri genitori.

Sento parlare di debito pubblico da quando ho memoria. Ho fatto anche io la mia parte persino nella famosa notte della lira: il 9 luglio del 1992, quando Amato entrò nei conti correnti degli italiani per prelevarne il 6 per mille. I miei mi avevano aperto un libretto al portatore per insegnarmi a risparmiare: un libretto nella stessa banca di mio papà dove versare i regalini ricevuti a Natale da nonni, nonne, zie e parenti vari. Il 9 luglio del 1992 avevo dieci anni e circa duecentomila lire sul conto. Pagai il mio: 1200 lire, il prezzo di un giornalino.

Quel giornalino è andato bruciato insieme a tanti altri risparmi degli italiani al falò del debito pubblico. Da quella notte a oggi abbiamo speso quasi 2300 miliardi di euro in interessi sul debito. 2300 miliardi per un debito che oggi è esattamente ancora di 2300 miliardi. Sono numeri che danno il senso di essere finiti in trappola. Ma anche dello sforzo che in questi anni è stato fatto. Quanti sono 2300 miliardi di interessi sul debito? Quanti soldi ci siamo tolti per darli ai nostri creditori? Se ci venissero restituiti tutti in un colpo, a ciascuno di noi spetterebbero 16 mensilità del proprio stipendio. Che Natale sarebbe, se ci dicessero: «Signori, questo dicembre non vi diamo una mensilità in più, ve ne diamo sedici!».

Non è bastato. Siamo finiti in trappola. E il debito pubblico è diventato il nostro vero sovrano. In questi ultimi 27 anni, non abbiamo fatto altro che lavorare per nutrire la bestia. Mentre Germania, Olanda, Francia hanno continuare a spendere in tecnologie, scuole, formazione, aiuti alle famiglie, incentivi alle imprese, noi abbiamo dovuto competere con loro senza risorse. Lo abbiamo fatto con le mani legate, schiavi di un tiranno che ha divorato ogni nuova ricchezza. Mentre gli altri paesi crescono, da noi cresce solo la bestia.

Questo sforzo non è bastato a mettere sotto controllo i conti, non ha impedito al debito di salire al 134% del Pil. Ma ciò non significa che non ci sia stato e che non abbia lasciato il segno su chi lo ha prodotto.

Anche chi non sa nulla di debito pubblico, di deficit e di surplus primario percepisce comunque quando lo Stato preleva più di quanto dà. Non bisogna essere laureati in economia per sentire quando i proprio sforzi non sono ripagati e non servono tabelle per maturare quel senso di malessere, malcontento e frustrazione che caratterizza la mia generazione.

Da 27 anni ripaghiamo un debito che non abbiamo fatto noi. Vorrei gridarlo: non l’abbiamo fatto noi! Nè io né i miei compagni di classe. E se anche il debito è una colpa, come pensano nel profondo del loro cervello i tedeschi, be’, comunque non è nostra. Non è nostra, la colpa dei padri Non è di chi ne sta pagando il prezzo maggiore: dei giovani. Non è di chi è dovuto andare all’estero per cercare uno stipendio decente. Non è di chi lavora con contratti rinnovabili di sei mesi in sei mesi. Non è di chi oggi versa pensioni che domani non avrà mai. Non è di chi oggi non ha nulla da portare in banca per farsi aprire un mutuo.

In Europa non esiste nessun altro grande paese che abbia chiesto alla sua ultima generazione uno sforzo finanziario pari a quello che è stato chiesto agli italiani: come si può chiedere ai più giovani di pagare il debito che è stato lasciato in eredità e contemporaneamente impedire loro di accedere alle risorse economiche per farlo? […]

da I figli del debito. Come i nostri padri ci hanno rubato il futuro, di Francesco Vecchi, Piemme (2019)

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