1937-2020Franco Maria Ricci, il mio labirinto è una scommessa vinta con Borges

Il celebre editore e mecenate si è spento nella sua casa a Fontanellato, in provincia di Parma, dove aveva creato il labirinto più grande del mondo. A ottobre del 2019 aveva rilasciato una intervista a Linkiesta confidando che aveva «ancora troppi progetti per dire di aver raggiunto la felicità»

Il 10 settembre del 2020 è morto Franco Maria Ricci, spentosi nella sua casa a Fontanellato, in provincia di Parma. Editore e collezionista, negli anni ’80 fondò la rivista FMR. È stato anche l’inventore del labirinto più grande del mondo realizzato a Fontanellato, in provincia di Parma. Proprio nella sua villa aveva rilasciato a Linkiesta una intervista sincera e schietta, confidando che aveva «ancora troppi progetti per dire di aver raggiunto la felicità». Pubblichiamo qui il testo

Alla ricerca della bellezza non si può che finire, prima o poi, a Fontanellato. In provincia di Parma, nel cuore dell’Emilia, in quella che è stata insignita “città del buon vivere e della buona tavola” – caratteristiche peculiari un po’ di tutta la regione – dove si trova anche un luogo magico, fuori dal tempo e dallo spazio, che è la summa di una vita spesa in costante tensione verso la perfezione. Si tratta di un labirinto, il più grande del mondo: il Labirinto della Masone. In attesa del suo ideatore, vengo invitato dallo staff e provare l’esperienza di perdermi all’interno degli infiniti percorsi lungo una superficie di sette ettari formati da 200mila piante di bambù di venti specie differenti. Ci si perde, effettivamente, ma ci si ritrova senza dubbio. E la sensazione che si prova, all’ombra straniante di quelle piante che si chiudono ad arco sulle nostre teste, è di esser governati da una forza invisibile ma pregnante che spinge al confronto con noi stessi per ritornare alla luce.

Il suo creatore è Franco Maria Ricci e vi si aggira come un minotauro in sella a uno scooter elettrico a quattro ruote inseguito da un omone grande e grosso ma affettuosissimo, il fidato assistente. Lo incontro all’uscita. Non è poi così anziano, classe ’37, ma evidentemente il correr dietro per anni al bello in ogni angolo del globo lo ha provato fisicamente. Si ferma di fronte all’ingresso sollevandosi a fatica, ma sgambettando a piccoli passi mi raggiunge animato da due grandi occhi bambineschi, tanto curiosi quanto sfuggenti. È un assolato pomeriggio agostano, per cui non indossa le caratteristiche giacche dai tessuti pregiati, sempre impreziosite da una rosa di bachelite rosso porpora divenuta nel tempo uno dei simboli del suo stile, ma una polo arancio con il colletto ondulante e un pantalone di lino grigio.

È un vero mecenate rinascimentale, come ama definirsi e come effettivamente è stato lungo tutto l’arco della sua carriera di designer prima e di editore poi. Creatore di marchi ancora oggi fra i più noti sul mercato (l’esagono della Scic, i sei puntini che precedono la scritta Smeg) o di trovate di marketing ante litteram (i biglietti Alitalia raffiguranti opere d’arte) ha poi scoperto nell’editoria il campo da gioco nel quale affermarsi come fenomeno della cultura a livello internazionale.

Nato a Parma da genitori aristocratici, può vantare di essere stato il primo in famiglia ad aver lavorato senza vivere di rendita. Studi in geologia, attirato dai monumenti ittiti e selgiuchidi trovò impiego nella ditta petrolifera Gulf Oil in Turchia, capendo ben presto che il suo destino era un altro: “Ricordo il fiume Tigri. Impressionante. Resistetti sei mesi. Per il caldo dormivo all’aperto, su un lettino da campo. La mattina mi svegliavano le facce dei curdi protese su di me. La bellezza del posto urtava con la fatica dei giorni”. Al ritorno la scoperta del conterraneo Giambattista Bodoni, incisore ma soprattutto inventore di caratteri tipografici grazie ai quali “dopo di lui la stampa non è più stata la stessa”. È da lì che parte l’avventura frenetica e ricca di soddisfazioni di FMR, sigla della casa editrice nata dalle iniziali del suo nome, che se pronunciata riporta alla parola francese Éphémère, effimero. È la svolta.

Nel ‘70 decide di ristampare la grande Encyclopédie francese curata da Diderot e D’Alembert. Progetto terminato nel 1980, che prevedeva 12 volumi venduti su prenotazione con consegna ai sottoscrittori di quattro o cinque volumi all’anno proprio come avvenne per l’originale. Un disastro annunciato che si trasformò in un successo storico con 5000 collezioni acquistate in Italia e nel mondo, a molte biblioteche pubbliche ma anche all’Eliseo per i doni di stato del presidente. Capì che era tempo di rilanciare. E così chiese il supporto di Inge Feltrinelli per convincere la marchesa madre a vendere un campo di pomodori per consentirgli di aprire la libreria a Parigi.

Le pubblicazioni scaturite dal suo ingegno multiforme e dalla meticolosità nella cura dei particolari sono, ancora oggi, ineguagliate. FMR, mensile che negli anni Ottanta meritò la definizione di “rivista più bella del mondo”, la ristampa del Manuale Tipografico di Bodoni, un altro inatteso successo, e ancora le edizioni d’arte e letterarie di pregio come le collane I segni dell’uomo, Quadreria, Oratio dominica, Morgana, Le guide impossibili, Grand Tour o il Codex Seraphinianus scritto dall’artista Luigi Serafini. Fondamentali, poi, gli incontri naturalmente in funzione di qualche progetto editoriale: Roger Caillois, William Saroyan, Italo Calvino, Roland Barthes. Ma soprattutto Jorge Luis Borges, con cui instaurò un vero e proprio sodalizio artistico, che portò alla realizzazione di una collana di ben 45 volumi diretti dallo scrittore argentino, La Biblioteca di Babele. Un artista, ma anche un imprenditore avveduto: nel 2002 vendette FMR per 18 miliardi (cifra mai confermata ma che si lasciò scappare Vittorio Sgarbi in una conferenza) al gruppo Art’è. Ma senza il suo estro rischiò il fallimento, tanto che recentemente l’ha rilevata per una somma ben inferiore, potendo tornare a pubblicare con il suo nome.

Una vita al massimo, quella di Franco Maria Ricci, votata al bello a ogni costo. E anche oggi, che osserva con malinconia l’ancora sfavillante Jaguar E-Type con la quale sfrecciava per le vie di Parma – ora custodita nel museo del labirinto– non sembra voler smettere di ricercare l’eccellenza. Si siede nell’ufficio a pian terreno, dove avverrà l’intervista, e prima di rispondere alle domande si intrattiene a confabulare con lo staff per segnalare ogni incongruenza grafica che riscontra nei depliant posti su un tavolino per l’accoglienza.

Quando è il mio turno, mi accorgo di avere davanti una persona indebolita nel corpo ma quanto mai vivace nell’intelletto. È infatti poco più di un sussurro la voce spavalda di un tempo con la quale annunciava al mondo nuovi mirabolanti progetti da una parte all’altra dell’Atlantico. Non è rimasto che un flebile afflato che a tratti si aggroviglia nella «r» uvulare tipica del dialetto parmigiano. Eppure come l’amico Borges, che nonostante la cecità voleva “vedere” di persona ogni meraviglia del mondo, così Franco Maria Ricci non si è sottratto a nessuna domanda e tra un bisbiglio e un’occhiata espressiva – grazie anche alle amorevoli assistenti della Masone – ci ha confidato che no, nonostante tutti gli sforzi non si sente ancora un uomo realizzato: “Ho ancora troppi progetti per dire di aver raggiunto la felicità”.

Franco Maria Ricci, sono stati i suoi genitori a educarla alla bellezza?
Ho sempre vissuto circondato dai libri perché mio padre era un amante dell’arte e della lettura. Durante la guerra, sfollati nell’Appennino parmense, portò con sé pochissime cose ma molti volumi. Finita la guerra e ritornati a vivere in città, inventò un nuovo gioco per me: mi dava ogni tanto mille lire per andare a visitare Lucca, Pavia o Mantova e al ritorno mi chiedeva di fargli il resoconto delle opere viste. Fu così che mi appassionai alla Storia dell’Arte.

Era molto legato a suo padre?
Sì, anche se purtroppo l’ho perso quando ero adolescente. Era un amante delle cose belle, dell’arte e della natura. Molti sono i valori che mi ha trasmesso.

E sua madre?
Con lei avevo un rapporto molto stretto. Lei vedova, io figlio unico…Fu lei a volermi regalare una Ferrari quando ero ventenne. Io, invece, decisi di acquistare una macchina tipografica!

A scuola che studente era?
Ho frequentato il liceo classico, eccellevo in latino, greco, filosofia, difettavo nelle materie scientifiche.

Dopo gli studi in geologia iniziò a lavorare alla Gulf Oil. Il peggior ricordo di quell’impiego?
Avevo scelto quel lavoro non tanto perché mi interessasse cercare il petrolio ma perché mi permetteva di visitare in Turchia i monumenti ittiti e selgiuchidi. Invece vidi la fame, la sete, i bambini col tracoma e gli occhi pieni di mosche. A quel punto ho capito che o facevo il missionario o tornavo a Parma. Sono tornato a Parma. Così è iniziata la mia carriera di grafico e poi di editore.

Quale è la formula per racchiudere una storia in un solo simbolo?
L’immagine di un marchio deve, prima di tutto, corrispondere a una precisa funzione: far capire a chi o a che cosa si riferisce, che cosa rappresenta. Quando si guarda un marchio lo si deve capire subito, con una lettura rapida, con un colpo d’occhio. Un’immagine che ha bisogno di parole e di chiarimenti è sicuramente debole o sbagliata. Naturalmente un marchio per divenire il segno di qualcosa deve essere sintetico, essenziale, unitario. Osserviamo la bandiera del Giappone: un cerchio in un campo. Un unico elemento, un’unità di spazio. È la perfezione assoluta. È un canone artistico. Bisogna sforzarsi di arrivare a questa idea, che è una formula di unitarietà.

Un po’ come quella rosa che porta sempre all’occhiello. È un portafortuna, ma quando decise di metterlo la prima volta?
L’idea venne dopo un regalo di Ottavio Missoni, un pullover. Gli dissi che non ne indossavo. Sulla scatola c’era un fiocco con una rosa rossa di resina. Prenderò questa come dono, aggiunsi.

Particolare fortuna le ha portato l’America, molto attenta alle sue creazioni. Cosa ama di più di quel paese?
L’America di ieri è molto diversa da quella di oggi. Dagli anni Settanta agli Ottanta stavo spesso a New York, dove avevo una casa. Era al centro della vita creativa mondiale, la città più all’avanguardia. Jacqueline Kennedy amava molto il mio lavoro e le stavo simpatico. Con lei e non solo ci furono collaborazioni straordinarie, come il lancio, passato alla storia, della mia rivista FMR con centomila abbonati.

Qual è invece il suo rapporto con Parma?
Amo, nella mia città, quell’atmosfera confortante e un po’snob di Pétite Capitale, molto francofila. Vi convivono armoniosamente e fianco a fianco spirito imprenditoriale, tradizione agricola, l’eleganza, il Pop, Giuseppe Verdi, la cucina, il rispetto e la passione per le Arti e le Lettere, ma anche una tradizione popolare viva e appassionata. Ciò che non amo è la triste sfilata di capannoni lungo la via Emilia. È uno spettacolo che non invita certo gli italiani e gli stranieri di passaggio a fermarsi e che da anni propongo di schermare con cortine vegetali in bambù.

Come editore ha creato volumi e collane ancora oggi insuperati. Ma c’è qualcosa nel mondo editoriale che avrebbe voluto fare e non c’è riuscito?
In questo non ho rimpianti. Ho coinvolto nelle mie attività editoriali alcuni fra i più grandi scrittori dell’epoca in cui sono vissuto: quelli che amavo e che mi erano congeniali. Non ricordo corteggiamenti andati a vuoto. Oggi quegli scrittori sono tutti morti e, se mi guardo intorno, avverto il vuoto e il deserto. Ma forse accade a tutti a una certa età.

FMR, Éphémère, effimero. È solo un gioco di parole ben riuscito o è proprio nell’effimero che si nasconde la vera bellezza?
L’arte, che ambisce all’eterno, e l’effimero, che corteggia le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui (Mallarmé), abitano spazi contigui e intercomunicanti. Sono un editore d’arte, ma l’effimero è annidato nel mio nome: ricordo ancora il giorno in cui scoprii, con sorpresa, divertimento e addirittura emozione che, lette in francese, le mie iniziali – FMR – suonavano éphémère, ‘effimero’. L’eterno è il nutrimento che desideriamo, … ma siamo sensibili alle rovine, alle eleganze dei tempi andati, alle testimonianze delle feste finite, perché siamo esseri mortali.

Non ha mai nascosto la sua religiosità, anzi, sembra un tratto distintivo – benché non ostentato – in tutte le sue creazioni.
Sono cattolico e praticante.

Sono un collezionista bifronte. Maniacale, quasi filatelico nella mia raccolta di opere di Giambattista Bodoni, ma imprevedibile, alogico, nella collezione di opere d’arte. Una bipolarità che mi salva dalle facili etichette e che mi ha permesso di inseguire un solo obiettivo: la bellezza

Di certo un altro grande amore è stato per lei l’arte. Quali sono le opere della sua collezione privata di cui va più fiero?
Sono un collezionista bifronte. Maniacale, quasi filatelico nella mia raccolta di opere di Giambattista Bodoni, ma imprevedibile, alogico, nella collezione di opere d’arte. Una bipolarità che mi salva dalle facili etichette e che mi ha permesso di inseguire un solo obiettivo: la bellezza.
Uno dei pezzi più importanti della collezione è il Vir temporis acti di Wildt, l’ho acquistato nel 1987 in seguito a una concitata telefonata notturna, capitava spesso, di Vittorio Sgarbi che mi segnalava l’opera in vendita a Roma: “È un capolavoro assoluto, è per te, lo devi avere!”. Sono molto fiero anche di un quadro che finalmente sono riuscito a far tornare a Parma dopo averlo inseguito per anni, il Ritratto della famiglia Ghidini, eseguito dal pittore parmense Pietro Melchiorre Ferrari.

Oggi, non solo in Italia, il buongusto e la ricercatezza sembrano soccombere a discapito del low cost e dell’usa e getta. Lei che rapporto ha con i tempi attuali?
Il più distaccato possibile. D’altra pare, come mecenate rinascimentale, ho costruito la mia fortezza neoclassica, il mio labirinto, dove coltivo la mia passione per l’antico e l’universale.

Forse anche per combattere il degrado di questi tempi ha deciso di realizzare il Labirinto?
Il labirinto è un percorso dell’anima, un perdersi per ritrovarsi. Oggi l’idea di smarrirci genera timore e angoscia. Il percorso all’interno del mio labirinto dovrebbe invece servire a ritrovare la serenità, il silenzio, se stessi.

Il Labirinto è una scommessa vinta con il suo amico J. L. Borges. Che rapporto avevate?
Borges è sicuramente stato un incontro fondamentale nella mia vita. Nel 1973 decisi di fare la sua conoscenza. Era un mito per me, al punto che, fino a quel momento, non osavo annoverarlo tra i miei autori. Incontrai Maria Esther Vàsquez e suo marito, Horacio Armani, degli amici di Borges, e grazie a loro un giorno dell’inverno 1973-74, entrai alla Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, che era diretta proprio da Borges. Elegante, vestito con una camicia bianca, mi aspettava sotto la cupola della sala di lettura. Non appena gli dissero che l’editore di Milano era arrivato, mi venne incontro recitando Dante: “Tu duca, tu signore”. Sul momento pensai che fosse una cortesia dedicata ad un ospite italiano, o che forse sapesse a memoria solo quel verso della Divina Commedia. In seguito, scoprii che la ricordava tutta a memoria. Ci univa l’amore per la letteratura, per i classici, ma anche per i misteri, gli enigmi, i labirinti. Parlavamo soprattutto di questo, era molto difficile discutere di altri argomenti con Borges. Con la parola “labirinto” si illuminava, anche se mi ammonì: “Non puoi realizzarlo, il labirinto più grande del mondo è il deserto”. Era felice di lavorare con me, stupito che un giovane editore europeo si fosse interessato a lui. Oltre ad un rapporto di lavoro ci legava anche una stima reciproca e una grande amicizia.

Alcuni considerano Vittorio Sgarbi uno degli uomini di cultura più importanti oggi in Italia, nonostante le note sfuriate televisive. In qualche modo fu lei a dargli fiducia in FMR.
Quando l’ho incontrato all’inizio degli anni Ottanta era uno sconosciuto, ma dopo pochissimo ho capito quanto fosse bravo a parlare e anche a scrivere, nonché quanto fosse estesa e completa la sua conoscenza della storia dell’arte. Era il collaboratore ideale; e infatti lavorò molto per me: scrisse libri e un gran numero di articoli per la rivista FMR. Nel frattempo, affiorò un aspetto di lui che mi sorprese, anche se lo avevo intuito sin da quando andavamo per chiese e svegliavamo preti a ore sconvenienti: la vocazione a portare scompiglio. Aveva bisogno di platee più vaste, di clamori. Per averli entrò in televisione e in politica. In quei mondi, che in me hanno sempre suscitato imbarazzo, si muove come un abile giocoliere.

Un artista giovane sul quale punterebbe?
Diversi sono gli artisti di oggi che apprezzo, alcuni hanno anche esposto le loro opere al Labirinto: Xavier Marin, Marco Barina, Enrico Berretta, quest’ultimo Bodoniano come me!

Ha qualche desiderio che le rimane da realizzare?
Tanti sono i desideri che ancora mi passano per la testa. Un labirinto di specchi, per esempio, oppure una nuova rivista, simile alla mia FMR. Ho anche un altro progetto per il mio labirinto, la summer school of art, da organizzare durante i mesi estivi con lo scopo di far conoscere, soprattutto agli stranieri curiosi e appassionati della Bellezza, le ricchezze d’arte e la memoria del territorio limitrofo a Parma, gremito di città e di antichi borghi (Mantova, Sabbioneta, Fidenza, Fontanellato, Busseto, Salsomaggiore…). Alle lezioni, tenute da cattedratici e studiosi, si affiancheranno visite guidate. Si tratta della prosecuzione, in altra forma, di una mission già svolta con la rivista FMR, che ha fatto conoscere, in tutti i paesi in cui veniva pubblicata, molti tesori italiani poco noti e a volte inediti.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club