Il saggio«Qui è tutto Daesh», il dopoguerra nelle zone dell’Iraq post Isis

Le cronache dalle guerre dei nostri tempi, nel nuovo libro dell’autrice del film “Isis, tomorrow” e del romanzo “Io Khaled vendo uomini e sono innocente”

© Alessio Romenzi

Maggio 2018.

Indosso occhiali con lenti colore dell’ambra. Posano un manto compatto sull’Iraq che ho davanti.

Ascoltiamo Fairouz; Karwan guida ancora come un anno e mezzo fa, zigzagando tra soldati e check point, i cartelloni pubblicitari che invitano a preferire una compagnia telefonica a un’altra sono sempre gli stessi, tra un cartellone e il successivo campeggiano i manifesti elettorali. Tre mesi fa ci sono state le elezioni, il sole ha sbiadito i volti di plastica e gli slogan dei vincitori e dei vinti, e il paese fa i conti con i propri populismi, un po’ come da noi.

“Come si racconta un dopoguerra che è già una profezia, Karwan?”.

“Racconta il passato e fai il paragone. Non cambia niente, non cambia mai niente. Racconta quello che non cambia”.

Racconta quello che non cambia. Potrebbe essere il verso di una poesia.

Mentre Karwan guida riporto alla mente tutte le cose che abbiamo visto insieme, io, lui, Alessio, i momenti in cui non parli nemmeno con i compagni di strada, tale è il pudore verso il dolore degli altri; i momenti in cui gli sguardi non si incrociano, non parli, abbassi gli occhi, tale è il timore di non saper gestire il peso della realtà, deglutisci, rialzi gli occhi e continui ad osservare. Poi la sera torni a sessanta chilometri da quel dolore, c’è un hotel che ti aspetta, l’aria condizionata nell’edificio bianco dalle mura scrostate del quartiere cristiano, dove la sera all’occorrenza c’è un bicchiere di vino, finalmente riposi e finalmente ti guardi e sorridi, cerchi un posto coi tavoli all’aperto, intorno c’è una riffa, un uomo col megafono grida dei numeri in una lingua non tua, di tanto in tanto qualcuno si alza entusiasta e cammina verso il palco per ritirare qualcosa, e in mezzo a quella lingua non tua, talvolta rumorosa, talvolta armonica, ti guardi e dici: hai visto gli occhi di quella madre? Ti ricordi lo sguardo di quella bambina? Mi ricordo. È sempre più difficile, lo sai? Lo so.

Il dopoguerra è più difficile. Sei lì che guardi le donne, nel dopoguerra. Vivi con loro, stringi le loro mani, accarezzi i loro figli, mangi un pezzo di pane e pomodoro sul pavimento della cucina, e ti chiedi per quale motivo si facciano le guerre. Si fanno per punire qualcuno, conquistare una terra, cambiare le cose. Rivendicare il proprio potere. O illudersi di averlo.

Cosa è cambiato dopo la guerra? Tutto, niente. Gli assassini sono stati sconfitti, l’Isis ha perso la terra da cui avrebbe dovuto ramificare il Califfato universale, ha perso uomini, simboli e prodigi. I soldati in parata hanno attraversato le strade irachene su lucidi mezzi militari sventolando bandiere e così sia.

I bambini ai bordi delle strade hanno alzato le braccia con il dito indice e medio in segno di vittoria, gli uomini (i pochi rimasti) applaudivano, e le donne erano in coda alla distribuzione del pane. Qualcuno dovrà pure pensare a sfa- mare chi resta, a sfamare i sopravvissuti. Code lunghe centinaia di metri.

“A che ora arrivano gli aiuti?”. “Alle due”.

“Ma sono le undici del mattino, cosa fate già qui?”. “Facciamo le liste, non c’è da mangiare per tutti”.

I soldati arrivano con gli humvee, sono armati, creano due file, una per ogni camion. Uno dei mezzi con gli aiuti alimentari è governativo, allora si mobilita anche il capitano, non solo i soldati semplici, qualcuno mormora che voglia darsi un tono perché pare che passi il governatore o forse no, forse viene qualcuno da Baghdad, non è chiaro, un funzionario ministeriale, in ogni caso qualcuno per cui valga la pena mostrarsi fieri nell’esercizio del potere. La sua divisa è più pulita delle altre, un blu scurissimo, stirata per l’occasione, i suoi modi hanno un che di inutilmente cerimonioso, si muove con la boria di chi può sorvegliare e punire e mentre cammina si lascia alle spalle l’odore di un dopobarba dozzinale. Ha un berretto che gli copre il capo, è calvo. Mi vede, lo vedo e intuisco che sono per lui un pretesto come un altro per la vanità.

“Donna, da dove vieni?”, dice alla prima della fila, mentre mi guarda compiaciuto con la coda dell’occhio.

“Arrivo da Mosul est, ma casa mia è qui dietro, cioè era qui dietro, in città vecchia, vivevo qui ma è tutto distrutto, non è rimasta che polvere”.

“Se vivevi in città vecchia sei di Isis. Sei di Isis, vero? Di’ la verità, di’ la verità o ti arresto”.

“Non sono di Isis, non sono di Isis”. “Dov’è tuo marito allora?”.

“È morto”.

“Fai vedere i documenti, forza. Ah, non c’è il timbro vedi?

Cagna di Isis, vai via. E non farti vedere più”.

E le strappa il foglio dalle mani. E lei, che tanto con il foglio poco avrebbe potuto fare, si allontana, dignitosa, mano nella mano con una bimba, presumibilmente sua figlia, che non le arriva all’anca, mentre le altre donne la osservano, qualcuna con pietà – forse pensando “Ora tocca a me la stessa sorte” –, qualcuna invece con rivalsa – forse pensando “Era ora che le toccasse questa umiliazione”. “Ti sei registrata? Registrati. Fammi vedere il timbro. Non hai il timbro dei servizi segreti quindi non sei pulita. Vai via, per te non c’è da mangiare”.

Qualcuna va via prima di essere controllata, meglio tornare a casa a mani vuote che non tornarci affatto. I pochi uomini presenti sono perquisiti, smistati, un uomo arriva gridando che vuole giustizia per suo figlio, non cibo, non aiuti, può morire di fame ma vuole sapere la verità sul figlio, dice che chi l’ha ammazzato, quello di Isis che l’ha ammazzato, è ancora in città, libero. Dice che non è vero che li hanno presi tutti. Quello, l’assassino del figlio, ha pagato qualcuno, ha pagato anche l’esercito e ora è a casa sua. Urla che non è cambiato niente. Dice che sono qui. Loro sono qui, in mezzo a noi. Anche se è passato quasi un anno dalla fine della guerra. Grida, con il volto scavato dalla pena. Penso a tutti i volti simili che ho visto, le fisionomie affaticate dal tormento del non sapere dove siano finiti i propri cari, dal non potersi spiegare perché un padre sopravviva al proprio figlio, al giovane uomo che avrebbe voluto vedere padre a sua volta. Penso a quei volti simili che con un esercizio di immaginazione posso trasformare nei volti sorridenti e floridi che sono stati, nella vita prima della pena. Quei volti tutti uguali, diventati improvvisamente rugosi, di quella ruga inconfondibile che si chiama dolore.

“Aiutatemi”, urla l’uomo, in faccia ai soldati. Che però lo portano via, per non disturbare la sfilata degli aiuti. Lo mettono su un humvee, uno dei tanti lì a presidiare la piazza. Loro sono armati, ma anche lui lo è. Il dolore è un’arma potentissima.

Arrivano gli aiuti, anonime scatole bianche chiuse con lo scotch. Decine, una sopra l’altra ai lati del camion. È sempre così, quello che era ordinato e compatto fino a un minuto prima diventa bestiale come lo sono i bisogni. E mangiare è il primo dei bisogni, in guerra, nel dopoguerra, ma soprattutto in un tempo lento fatto di niente. Le donne si aggrappano alla lamiera ai lati del veicolo, una grida “Stiamo morendo di fame”, le altre sventolano i fogli con le mani alte verso il cielo, l’addetto alla distribuzione fa loro cenno con le braccia di allontanarsi mentre i bambini tentano di salire sul camion aggrappandosi ai suoi piedi, i soldati si innervosiscono, “Yalla yalla”, forza, forza.

Poi improvviso un camion arriva dalla via limitrofa, troppo velocemente, e alza un vortice di sabbia, e fa silenzio e calma e tutto si colora di ambra. Le donne si placano, abbassano le braccia e si coprono gli occhi, proteggendoli dalla polvere, così come i bambini. Abbandonano la presa alle gambe dell’addetto alla distribuzione che approfitta di quell’istante di involontaria calma per mettere in moto il camion e andare via, tra quello che resta del vortice di sabbia e una massa di donne e bambini affamati.

La distribuzione di cibo è il momento in cui l’aiuto si accavalla all’umiliazione. Distruggi una città per liberarla, la lasci distrutta per dare una lezione – “Avete voluto l’Isis, e allora vi tenete la città rasa al suolo”, sembrano mormorare le macerie intorno a noi – mentre in mezza città i negozi sono chiusi, le saracinesche abbassate, e chiusi sono anche gli uffici, le istituzioni, le scuole.

E allora chi torna a vivere questi brandelli di case non può che chiedere e sperare di ricevere aiuti, così che la vita, a Mosul, diventa l’esercizio di un rito quotidiano di donne e bambini questuanti. Vite di elemosine in un paese corrotto in cui anche la carità si fa pagare cara.

Suppliche. E ogni supplica è una storia.

Il dopoguerra di Mosul è fatto di stigma. Come se la vera liberazione equivalesse solo all’espressione della vendetta. Le forze di sicurezza con i propri mezzi, e la gente comune con i suoi, non meno violenti. Il dopoguerra è stigma. Ovunque ci sia una traccia di Isis c’è un’onta.

Nessun perdono, ancora nessuna pietà.

Un gruppo di bambini corre verso di me: “Nella nostra scuola non ci sono finestre, non ci sono porte, non ci sono nemmeno insegnanti, siamo millecinquecento ragazzi in una scuola e a volte in una classe ci sono 250 bambini. Il mese scorso c’erano solo cinque insegnanti, dicono che il governo non li paga e allora loro non vengono a lavorare, oppure se vengono e siamo troppi ci mandano a casa, hai capito? Ci mandano a casa”, e tutti intorno annuiscono. Sì, sì, capito, ci mandano a casa. E ognuno – che abbia otto, dieci, undici, quattordici anni – ti dice che ha un padre, un fratello, uno zio o un nonno o tutti loro insieme uccisi da Isis o dalle bombe della coalizione ma nella rabbia del dopoguerra non importa come siano morti, se uccisi da Isis o dalle bombe americane, questi padri, fratelli, zii e nonni sono morti e basta e quello che importa è che la colpa sia di Isis.

E così sia. E poi riprendono a correre, uno dietro l’altro: “Seguimi, seguimi”.

Questa casa è di Isis, anche questa, questa via è tutta di Isis. Qui sono solo case di Isis”. Urlano, mostrandomi le scritte sui muri di quelle case di mattoni senza intonaco, quelle case fatte di niente. E ogni casa porta una scritta sul muro di ingresso: “Beit Daesh”. Casa di Isis. Che si sappia, in guerra e in pace, chi abitava quella casa. Quel che viene dopo è punizione, mascherata da giustizia.

Durante la guerra l’esercito segnava con la scritta “Beit Daesh” le case che aveva riconquistato, timbro e firma. Un colore per la Federal Police, uno per la Golden Division e via combattendo. Nel dopoguerra tocca ai servizi segreti trovare i sopravvissuti, le famiglie dei combattenti. E marchiarle. Così accanto alla vernice sbiadita della battaglia c’è la vernice fresca, ci sono le scritte nuove, e l’eco dei bambini. “Qui è tutto Daesh”, la voce dei bambini come continuazione dello stigma, il coro dell’emarginazione collettiva. “Hanno ammazzato mio padre”, dice uno, “devono andare via”. E gli altri intorno annuiscono e continuano a correre. Verso altre case marchiate. La maggior parte vuote, poche altre abitate da fantasmi, ombre che si muovono dietro le finestre. Sul chivalà di chi sa che da un momento all’altro può subire una retata dell’intelligence o un assalto dei vicini. Un assalto delle vittime. Ma chi sono le vittime oggi, oggi che essere vittime è un valore, oggi che essere vittime ha un valore ed esserlo o non esserlo può significare la vita o la morte?

(Estratto da “Porti ciascuno la sua colpa. Cronache dalle guerre dei nostri tempi”, Laterza, 2019 – 192 pagine, 18 Euro)