Stupisce che gli appassionati di misteri, i pistaroli del Russiagate e della Consip, gli Etrurologhi, gli esegeti di Mafia Capitale, insomma quelli che la sanno lunga sui recenti mini-segreti d’Italia, non abbiano sussultato davanti all’improvviso materializzarsi di un mistero vero e di prima grandezza, anzi di più: l’inaspettato crollo del tabù giudiziario che dichiarava “caso chiuso” l’indagine sulla Strage di Bologna, un totem eretto attraverso 16 processi che hanno impegnato i tribunali italiani dal 1987 e non sono ancora finiti. È successo per caso, durante le udienze che riguardano l’ultimo imputato in lizza, Gilberto Cavallini. La difesa chiede una perizia sui resti della povera Maria Fresu, la vittima ritenuta più vicina alla bomba quando è scoppiata: di lei è rimasta solo la faccia, scarnificata dallo spostamento d’aria, il resto si è polverizzato. Si vuole fare un approfondimento sull’esplosivo assorbito dai tessuti ma le analisi scoprono tutt’altro: quel corpo non è di Maria e forse neanche degli altri morti censiti perché a nessuno di loro, sostiene (non smentita) la difesa manca del tutto la faccia, nessuna autopsia segnala una lesione di quel tipo.
C’era una vittima numero 86 sotto le macerie della stazione ed era la più vicina alla bomba. Si è pasticciato per cancellarla, per fermare i conti a quota 85 e adesso il diavolo ci ha messo lo zampino
Il sospetto è chiaro. C’era una vittima numero 86 sotto le macerie della stazione ed era la più vicina alla bomba. Si è pasticciato per cancellarla, per fermare i conti a quota 85 e adesso il diavolo ci ha messo lo zampino: “Chi l’ha visto” pubblica sul suo sito la foto (terribile) del volto senza nome, invitando chi può a riconoscerlo; il tribunale non sa che fare, forse ordinerà perizie sui parenti delle donne morte per vedere se c’è qualcuna che corrisponde a quei poveri resti. Il caso si riapre, e non è solo questione giudiziaria ma eminentemente politica perché qui rischia di venir giù un caposaldo della storia italiana, insieme alle carriere di centinaia di inquirenti, magistrati, politici che hanno difeso l’edificio processuale, pugnale tra i denti, marginalizzando chiunque – compreso il presidente emerito Francesco Cossiga – sollevasse dubbi sulle sue fondamenta.
La povera Fresu è uno dei simboli, forse il principale, di quella strage insensata. Su di lei hanno scritto libri e canzoni: ha commosso più di altri perché è morta insieme con la sua bambina, Angela, di tre anni, la più giovane vittima dell’eccidio. Era una operaia ventenne di origini sarde, trasferita da tempo a Gricciano, vicino Firenze, e stava andandosene sul Garda nel primo giorno dopo la chiusura delle fabbriche insieme alle amiche Verdiana e Silvana. Nella fatidica sala d’attesa di seconda classe erano sedute insieme, in teoria abbastanza lontano dal luogo dell’esplosione, tantoché Silvana sopravvisse mentre la piccola Angela e Verdiana restarono schiacciate dalle macerie. Per molto tempo si pensò addirittura che Maria fosse ancora viva, il suo corpo non era da nessuna parte, fu dissepolta solo la sua valigia coi documenti dentro: la cercarono negli ospedali, poteva essere ferita, non cosciente, magari si aggirava per le strade in stato di choc. Dopo mesi il caso fu chiuso col ritrovamento dei resti del volto, non attribuiti a nessuna delle altre vittime e associati a lei sulla base di un esame del gruppo sanguigno (il test del Dna, nel 1980, non era ancora una procedura). Si disse che forse si fosse alzata, spostandosi nei pressi dell’ordigno: l’unica spiegazione che poteva giustificare la totale mancanza di resti oltre il viso e i capelli.
Ora sappiamo che Maria manca ancora all’appello e forse c’è una vittima in più di cui non conosciamo nulla, né il nome né la provenienza
Ora sappiamo che Maria manca ancora all’appello e forse c’è una vittima in più di cui non conosciamo nulla, né il nome né la provenienza. Il giudice Rosario Priore, magistrato di punta negli anni del terrorismo, un paio di anni fa nel libro “I segreti di Bologna” scritto con Valerio Cutonilli, aveva già sospetti e avallò l’ipotesi di una deliberata manipolazione dei corpi per evitare che nell’inchiesta sulla pista nera si aprisse una falla legata alla vittima sconosciuta: era la più vicina all’ordigno, forse lo trasportava lei. Restò letteratura, come molti altri scritti sulle lacune dell’inchiesta e il persistente rifiuto di considerare piste internazionali, fra i quali va citato “Bomba o non bomba” del bolognese Enzo Raisi. Ora sarà difficile trattare quei ragionamenti come folli dopo l’ultima perizia. Bologna non è più “un caso chiuso” e bisognerà decidere se riaprirlo del tutto o far finta di niente, accettando l’orrore di una verità giudiziaria incapace non solo di dare verità alle vittime ma persino di contarle.