ColumnCiao, non so che dirti, LOL, ti mando una faccina

Emoticon, gif, acronimi: comunicare con lo smartphone ha cambiato il modo di scrivere, spianando la strada all’ignoranza linguistica ed emotiva. Ma naturalmente c'è chi dice che finalmente il popolo si è liberato delle élite. #WTF

MAXIM MALINOVSKY / AFP

Qualche anno fa, una battuta da Machete (2010, regia di R.Rodriguez) pronunciata dallo stesso protagonista, Danny Trejo, cominciò a circolare parecchio grazie alla sua lapidarietà: “Machete don’t text”. Per chi non lo ricordasse Machete era un truzzo che ironicamente, ma con quell’ironia che poi, nei fatti, è solo una scusa per cementare lo status quo, riproponeva il maschio da film anni ottanta, capace da solo di sconfiggere centinaia di cattivi, ma giusto perché l’hanno fatto innervosire altrimenti se ne sarebbe stato tranquillo in disparte. Insomma, pur nascosta dietro quella falsa ironia, non messaggiare, chattare o whatsappare sembrava ancora una cosa da duri. Dico sembrava perché non ci è voluto molto a tirar giù quel muro. Qualcuno ha provato a innalzarne altri, ma sono caduti in breve anche quelli. Dopo i messaggi, Machete avrà cominciato a twittare, poi a usare agli emoji e, in questi giorni, Machete starà pensando a come mandare la sua prima gif.

A ogni aggiornamento di software, le faccine – come ingenuamente le chiamavamo una volta – aumentano, le gif pure, coi meme si vincono le elezioni. Di pari passo si fa fatica a stare dietro agli acronimi, sempre più gergali e paradossali (soprattutto quando si usa per la cultura pop il linguaggio degli iniziati). Proprio così come per le faccine che offrono dozzine di varianti di un’emozione spesso sostituendosi all’emozione stessa che diventa espressa e non provata, non passa giorno senza imbattersi in qualche nuovo acronimo, col risultato che le sfumature svaniscono e la fiducia scompare. Il piacere di scrivere una battuta affidandosi alla fiducia che l’interlocutore comprenderà il tono o che – pazienza – non lo comprenderà – affari suoi – sta facendo la stessa fine. Assieme alla fiducia cede il passo la calma con cui si era disposti ad accettare un’incomprensione. Pure con gli amici più stretti possiamo usare il pollicione di Facebook o le mani alzate per dire “ok, va bene”, perché serve a risparmiare del tempo, appare più educato che chiudere una conversazione senza rispondere (anche se, alla fin fine, è lo stesso), non costa sforzi: uno sfoglia nell’archivio gif di Facebook e qualcosa di divertente lo trova. Affidiamo all’altro lo sforzo di aggiungere un senso che noi non abbiamo più voglia di cercare.

Anche l’asse del gabinetto scheggiata o la lampadina fulminata sono diventate d’improvviso problematiche, come fossero cose serissime invece che semplici problemi

Eppure dice la linguista canadese, Gretchen McCulloch, in Because Internet, che assistiamo a un momento meraviglioso dell’evoluzione linguistica perché finalmente viviamo un’epoca in cui la lingua è fatta dalle persone e non dalle élite. Questa faccenda delle élite, l’abbiamo visto altrove, funziona perfettamente. Poche cose come le lingue hanno sempre fatto a meno delle élite, ma addossare loro le responsabilità continua a essere efficace. Le élite non hanno potuto nulla contro il “piuttosto che” disgiuntivo ormai comunemente accettato perfino senza alzate di sopracciglia, non hanno potuto nulla contro “quant’altro” come finale di frasi, discorsi, elenchi e quant’altro, non hanno potuto nulla neppure contro ogni problema che, d’improvviso, s’è trasformato in problematica. Anche l’asse del gabinetto scheggiata o la lampadina fulminata sono diventate d’improvviso problematiche, come fossero cose serissime invece che semplici problemi. O temi, o tematiche. Anzi, le élite linguistiche si sono rivelate subito entusiaste di accogliere anche le più orrende trasformazioni, anche perché, pure storicamente, hanno sempre adoperato il proprio potere nella codifica delle trasformazioni piuttosto che nell’operarla. Deve essere il loro obbiettivo.

Ma soprattutto le élite non possono nulla contro le dozzine di gruppi whatsapp, tra genitori o tra ex compagni di classe, che sono diventati veri e propri cimiteri della grammatica e del senso. Forse l’errore è stato affidare il compito di riportare tutto all’ordine ai grammar-nazi sperando che quell’approccio combattivo fosse efficace. Ma non è andata così. (Come non è andata così con i vaccini). E dunque, nel mio piccolo sono sempre più sbigottito e angosciato dall’uso che i miei ex-compagni fanno dell’italiano, e ne scrivo tranquillamente perché ho piena fiducia che non arriveranno a leggere questo testo, tuttalpiù ci metteranno un like distratto, soprattutto dall’idea che accentare o apostrofare correttamente sia poco più che un atteggiamento snobistico, un dovere solo di chi ha tempo da perdere. E mi riempiono di “pò” o di “che” al posto del perché (Ogni tanto qualcuno azzarda un “ché” ma escludo sia una reminiscenza di italiano del Cinquecento) con la stessa sciatteria che in decine di altri momenti detestano. Tuttavia credo di non sopportarlo anche perché riconosco lo stesso atteggiamento – con un’intensità diversa, ovviamente – di quando inoltro una faccina, la stessa disistima per l’interlocutore, la stessa impazienza o fretta, soprattutto la stessa sfiducia per le possibilità della lingua. È vero che ogni acronimo velocizza la comunicazione, parla di una serie di letture, interessi, gusti condivisi, ma allo stesso modo ha con sé perfino qualcosa di tribale perché nasconde un codice condiviso.

Non siamo più dalla parte dei gerghi usati per nascondersi e proteggersi, ma dalla parte dell’uso ad esclusioni di altri. E chi usa ancora lol alla vecchia maniera è come uno che gira con la Punto

Quando, come fa notare McCulloch, l’uso di lol si trasforma – da “sorriso” a “sorriso sarcastico” – non è solo un’allegra trasformazione da abbracciare, ma pure una sorta di bullismo per cui qualcuno può stabilire il significato di una parola alle spalle di altri. Non siamo più dalla parte dei gerghi usati per nascondersi e proteggersi, ma dalla parte dell’uso ad esclusioni di altri. E chi usa ancora lol alla vecchia maniera è come uno che gira con la Punto. In questo non sono diversi dall’uso della lingua fatto dalle élite, quelle sì, più meschine, cioè quelle che usano la lingua per nascondere e fuorviare.

La celebrazione di Internet come alfiere delle sorti magnifiche e progressive sembra ormai fuori tempo massimo perfino in ambiti dove dovrebbe essere più arduo arginare la libertà. Oltretutto, le emoticon a nostra disposizione sono sempre più spesso di proprietà di grandi aziende, le gif vengono integrate sempre più velocemente e perfino gli acronimi e gli errori comuni finiscono per essere normalizzati attraverso le regole grammaticali degli strumenti che usiamo per scrivere. Quando “pò” non verrà più corretto, o quando “perchè” rimarrà con l’accento sbagliato saranno gli uomini che hanno cambiato le regole oppure le aziende che gliel’hanno cambiate? Io sospetto la seconda. Intanto che gli iPhone continuino a proporci di continuo il passato remoto, quello sì, è lol.