Un tranquillo weekend di lavoro, questo ha in mente Giuseppe Conte per i leader della sua maggioranza di governo. Il premier lo ha annunciato al Fatto, sollecitato da Marco Travaglio che ormai veste i panni del personal trainer: il presidente del Consiglio intende portarli con sé per un sabato e domenica insieme per dirsi tutto guardandosi negli occhi. Una via “umana” per capire se e come si può andare avanti. Ma se i capi dei partiti di governo finora non si sono mai incontrati ci sarà un motivo. Magari non si stanno simpatici. E addirittura qui si favoleggia di due giorni e una notte insieme! Ma ve l’immaginate Zingaretti e Di Maio bere il bicchiere della staffa prima di andare dormire? Ci pensate a Renzi e Speranza a colazione di buon mattino? E chi altro ci sarà (ci sarebbe)? I ministri, i sottosegretari, i portaborse? Attento, presidente Conte, i precedenti non portano bene. Ci pensi.
Fu Romano Prodi il primo (e ultimo) anfitrione di questo tipo di incontri, forse frutto della sua nota attitudine conviviale, molto emiliana, molto cattolica (prima-il-dovere-poi-il-piacere), soavemente umana e inevitabilmente anche materiale, senza dimenticare quel tratto accademico del Professore-presidente che spiega il ricorso al “seminario”, così fu battezzato l’incontro dei ministri del governo Prodi 2, giugno 2006, in quel di San Martino in Campo. Un “ritiro” – Prodi lo paragonò a quelli di Coverciano per i calciatori – che risultò politicamente poco utile: lo si capì subito dalla freddezza oltre l’abituale di D’Alema. Ci fu il povero Padoa-Schioppa che, da buon professore anche lui, si era messo d’impegno per rendere edotti i suoi colleghi del tipo di politica economica che aveva in testa: ma alla fine, fra i discorsi di Mastella da una parte e Bertinotti dall’altra, non ne venne fuori granché. Pioveva a dirotto, in quella campagna umbra, la testa era altrove. Metafora di quel governo sfortunato di cui non si ricorda molto, a parte il clamoroso crollo in un Senato ove fecero la loro comparsa mortadella e spumante («Colleghi, non siamo all’osteria», sbraitò il presidente Marini).
Lo stesso presidente del Consiglio ci riprovò l’anno successivo e lo fece in grande stile. La location non era più un ex monastero in un posto sperduto ma addirittura uno dei luoghi più belli d’Italia, la Reggia di Caserta (il che comportò non poche ironie da parte dell’opposizione e dei suoi giornali). Fu una specie di happening riservato, con decine e decine di politici, collaboratori, nullafacenti, cronisti, fotografi.
L’11 gennaio 2017 intorno a un grande tavolo a ferro di cavallo ci sono 34 persone: Prodi, i 25 ministri, il sottosegretario alla presidenza Enrico Letta, i 6 segretari di partito (Fassino, Giordano, Diliberto, Boselli, Bobo Craxi, Luciana Sbarbati – chi se la ricorda?). Ma soprattutto c’è Marco Pannella – i radicali appoggiano il governo – che diventa da par suo il protagonista di una delle vicende più comiche della storia politica recente. Va raccontata.
Si era deciso di tenere il “conclave” a porte chiuse. Tuttavia nel pomeriggio dell’11 accade l’imprevisto: Radio Radicale stava trasmettendo in diretta i lavori “segreti” della riunione. Con i colleghi, noi eravamo lì a cercare di intendere le parole del premier, che già di suo non è che avesse una dizione da attore – la linea era infatti molto disturbata perché captata mediante un telefonino. Quello di Pannella. Il quale rivolgendosi a Prodi gli dice: «Scusa, presidente, su Radio Radicale abbiamo mandato in onda le trasmissioni pirata delle sedute della Camera dei deputati che non lo consentiva. Mi felicito con Radio Radicale».
Era lo stesso D’Alema, in versione Jep Gambardella, che molti anni prima aveva politicamente mandato a monte il primo “conclave” prodiano, quello di Gargonza (marzo 1997), c’era il primo governo Prodi, il Castello nel mantovano rigurgitava di ministri e anche di intellettuali
Gli animi si accendono. Anzi, uno solo. L’ex pubblico ministero Tonino Di Pietro s’inalbera; e il leader radicale lo manda a quel paese – un abruzzese contro un molisano, si dirà poi – con un sibillino «Tonì, statte accuorto. Occupati dell’Idv, di De Gregorio, del resto mi occupo io…». Se era cominciata così, Caserta non poteva finire bene. Il socialista Boselli parlò di “delusione cocente” ma gli altri erano soddisfatti: non si era rotto, e questo era già tanto. La sceneggiata di Pannella, giusto quello si ricorda. Prodi la prese a ridere, persino D’Alema sentenziò: «É la democrazia, bellezza»: in fin dei conti a lui che la festa si fosse guastata non importava molto.
Era lo stesso D’Alema, in versione Jep Gambardella, che molti anni prima aveva politicamente mandato a monte il primo “conclave” prodiano, quello di Gargonza (marzo 1997), c’era il primo governo Prodi, il Castello nel mantovano rigurgitava di ministri e anche di intellettuali. Fra questi, bei nomi: Umberto Eco, Gianni Vattimo, Luciano Berio, Maurizio Costanzo, Corrado Augias, Ettore Scola, Pietro Scoppola, Elvira Sellerio, Alberto Monticone, Augusto Barbera, Paolo Flores d’Arcais, Luigi Spaventa, Andrea Manzella, don Antonio Mazzi. Non si giunse a nulla.
Il fatto è che il Professore, all’apice della sua forza, già pensava al suo Ulivo come al vero e unico soggetto politico riformista italiano. Il segretario del Pds, con un inatteso intervento (inatteso per la sua ruvidezza), smontò quel progetto, «niente partito dell’Ulivo». E per un bel po’ di tempo Gargonza fu sinonimo di fallimento. Ci pensi, presidente Conte, i weekend di lavoro possono essere una trappola mortale. O una cosa inutile, che poi è lo stesso.