Prigionieri del nostro illustre passato, preoccupati di conservare la memoria, attaccati in maniera spasmodica a tutto ciò che sa di antico, noi italiani dovremmo imparare dagli inglesi quanto la cultura della modernità sia ricca di spunti di riflessione, straordinaria possibilità di mescolare le carte, attraversare i linguaggi e (parlando di mostre) moltiplicare i pubblici. Per capire il tempo che stiamo vivendo l’arte in senso accademico non basta. Moda, design e soprattutto musica offrono le chiavi di volta e dunque nei musei di Londra è sempre più frequente trovare esposizioni dall’alto grado scientifico e altrettanto spettacolari, che nessun filologo british si sognerebbe di obiettare davanti a un’emozione.
Negli anni scorsi David Bowie, Beatles di Revolution e Pink Floyd furono oggetto di accurati studi e ricerche. Le tre mostre, promosse dal Victoria & Albert Museum, arrivarono anche in Italia (Bologna, Milano e Roma) con non eccellenti risultati, perché da noi si preferisce pur sempre un Caravaggio, un Bernini o un impressionista d’importazione. I curatori del più importante museo di arts and crafts del mondo predicano per statuto la commistione linguistica tra alto e basso, in netto anticipo sul postmoderno. E attraverso la pop culture l’Inghilterra celebra se stessa, nazione guida ancor più dell’America (sì, perché lo sguardo è più caustico, critico, analitico) nel passaggio tra moderno e contemporaneo.
Quarant’anni fa i Clash pubblicarono London Calling, uno degli album più importanti dei ’70, una rivoluzione sonora e iconografica, superato il punk, che oggi il Museum of London celebra con una retrospettiva a ingresso gratuito fino al prossimo aprile. A partire dalla copertina del disco, in cui la grafica riprende quella storica del primo 33 giri di Elvis Presley, e la fotografia (rubata) di Pennie Smith mentre Paul Simonon distrugge il basso al termine del concerto al Palladium di New York (esposto in mostra), materiali, video, feticci, fotografie e suoni concorrono a raccontare la storia di quella che a ben vedere possiamo identificare come l’ultima avanguardia del ‘900.
E forse non ce ne sarà più un’altra. Ecco i taccuini di Joe Strummer con schizzi, testi, annotazioni; le tracklist dei concerti compilate da Mick Jones; i drum stick di Topper Headon. Materiali provenienti dagli archivi privati dei musicisti, da collezionisti privati e dai fan del gruppo. A Londra sono bravissimi a prelevare l’anima indie e sperimentale per trasformarla in mainstream, o comunque in una lingua adatta a un pubblico trasversale, così il rock diventa patrimonio museale quanto un’installazione di Damien Hirst o un dipinto di David Hockney.
Come sanno fare gli inglesi le mostre davvero non ce n’è per nessuno, in Italia non abbiamo ancora imparato e forse non impareremo mai, settoriali come siamo
Tornando al V&A – anche senza aver fatto il programma, senza neppure sapere che c’è una visita a questo fantastico museo è sempre scelta giusta – da alcuni mesi è di scena Mary Quant, la stilista sixtie che molti conoscono come l’inventrice della minigonna ma che ha compiuto una vera e propria rivoluzione nella moda proponendo una diversa immagine della donna, quando la moda stessa assumeva un ruolo sociale molto più evidente rispetto al presente, nella Londra che sperimentava nuovi usi e costumi a partire dalla lettura del corpo.
L’epoca è la stessa raccontata nella terza stagione di The Crown e per certi versi, pur essendo passato oltre mezzo secolo, sembra davvero incredibile il mantenimento di questo straordinario equilibrio tra conservazione e innovazione. Anzi, più l’Inghilterra risulta politicamente conservatrice, più le spinte a osare e sovvertire tutto appaiono indispensabili.
Come fanno loro le mostre davvero non ce n’è per nessuno. Come accostano cose diverse tra di loro, azzardando scenari imprevisti e salti di temi e argomenti, in Italia non abbiamo ancora imparato e forse non impareremo mai, settoriali come siamo. La terza mostra da non perdere è sempre al V&A: Cars, ovvero l’automobile come strumento per viaggiare nella modernità. Non è una rassegna di auto d’epoca ma un ragionamento articolato e divertente sul passaggio dall’enfasi tecnologica del primo ‘900 alla crisi degli anni ’70 al rigetto attuale verso i carburanti inquinanti. Insieme alle macchine è cambiato il mondo e non è affatto detto che quello di oggi sia migliore, soprattutto se prendiamo in esame lo stile e l’eleganza, andati perduti.