Siamo punto e a capo. Dopo decine di vertici europei, anni di Quantitative Easing, dispensato a piene mani da Mario Draghi, dopo manovre economiche sempre “per la crescita”, siamo ancora qui, a temere per il default, per una ristrutturazione del debito che metterebbe in ginocchio banche e famiglie risparmiatrici.
Tanto per cambiare i cattivi sono sempre loro. I burocrati europei che vorrebbero riformare il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) rendendo l’accesso al credito agevolato dell’ex Fondo Salva Stati più rigido, con condizioni draconiane da soddisfare preventivamente, per esempio, la riduzione del debito di 1/20 all’anno, che porterebbero a una speculazione contro i titoli di Stato. Che rischierebbero di diventare fragili non appena il mercato fiutasse la possibilità di un ricorso al MES, aggravando la situazione e rendendo necessaria di fatto una ristrutturazione vera e propria.
Ma cosa ha fatto l’Italia negli ultimi 7 anni, dalla crisi dell’euro e dello spread a oggi per evitare di ritrovarsi, nonostante i 5 anni di ripresa, in questa situazione? Nulla purtroppo. Anzi, la nostra posizione è peggiorata se confrontata con quella degli altri Paesi della UE e dell’area Euro.
Forse pensando che, ogni salvezza e ogni colpa, sarebbe stata comunque appannaggio dell’Europa abbiamo rinunciato a fare il nostro. Tra gli indicatori più interessanti per capire meglio la questione vi è il saldo primario, la differenza tra entrate e uscite dello Stato senza considerare gli interessi, che dipendono anche da fattori esterni (il famoso spread per esempio, che pure sempre fattore esterno non è).
E’ dal 1991 che, con la sola eccezione dell’annus horribilis 2009, in Italia è positivo. Ovvero le entrate hanno praticamente sempre superato sempre le uscite, fatto una volta piuttosto raro in Europa. È un comportamento virtuoso cui siamo stati costretti prima per poter entrare nell’euro e poi per far scendere o non far salire troppo il rapporto debito/PIL. L’avanzo primario è stato una riserva per compensare i costi degli interessi particolarmente alti e una crescita sempre più asfittica.
Una riserva che abbiamo però deciso di mangiarci o comunque di non fare crescere per poter risanare i conti e non rischiare un nuovo 2011. Al contrario di quello che hanno fatto praticamente tutti gli altri Paesi. Se in media nella UE si è passati da un disavanzo dell’1,4 per cento del PIL nel 2012 a un avanzo dell’1,1 per cento nel 2018, se nella mai austera Francia nello stesso periodo il disavanzo è calato dal 2,4 per cento al 0,8 per cento, e se in Spagna addirittura lo stesso disavanzo è crollato da un drammatico 7,7 per cento a un quasi pareggio, nel caso dell’Italia, caso quasi unico, si è scelto di peggiorare la nostra posizione andando da un avanzo del 2,3 per cento a uno dell’1,5 per cento nel 2018, dato rimasto invariato dal 2014, nonostante la timida ripresa della crescita.
Ripresa che quindi è stata utilizzata interamente. Questo è un punto fondamentale, solo per fare nuove spese o sgravi non per aggiustare i conti, per costruire un argine a eventuali altri shock come quelli della recessione del 2008-2009. Evidentemente, questo è stato pensato, a questo doveva pensare Supermario Draghi, al calo del costo degli interessi.
L’avanzo del 3,5 per cento che avevamo raggiunto nel 2007 non era bastato per metterci al riparo da aggiustamenti dei conti quando siamo stati costretti. Ebbene ora ne abbiamo uno tre volte più piccolo.
Nel 2012 potevamo affermare di essere “i primi della classe”, quelli che nonostante o anche a causa della crisi, tenevano il saldo migliore, tra i pochissimi in avanzo. Nel 2018 eravamo di poco sopra la media, superati da 14 Paesi sia dell’area euro che da altri.
Per dirla in termini ancora più semplici, ovvero in soldi sonanti, siamo il Paese che ha bruciato più denaro tra il 2012 e il 2018. Quasi 10 miliardi, di tanto è scesa la differenza tra entrate e uscite. Di fatto a dispetto di tutta la narrazione circolata, siamo stati il Paese con la politica più espansiva, perlomeno in rapporto alla crescita e alle entrate.
Solo Ungheria, Romania, Estonia, Lettonia si sono permessi oltre a noi di avere una politica simile, ma non a caso sono Paesi con una crescita altissima e con un debito ridicolmente basso rispetto al nostro.
Gli Stati più importanti hanno avuto una traiettoria completamente diversa. Anche solo limitandoci a quelli dell’area euro, Francia, Germania e Paesi Bassi, essi hanno messo da parte più di 30 miliardi rispetto al 2012, la Spagna addirittura 78
Un po’ tutti sono riusciti ad aumentare la differenza tra entrate e uscite, o a diminuirla se c’era un disavanzo, e a crescere ugualmente. C’è però un fatto che rende la posizione dell’Italia ancora più grave, ed esula dai soli numeri. È la questione della fiducia, dell’affidabilità.
I governi italiani hanno ogni anno costantemente smentito ogni impegno e stima che avevano messo per iscritto negli anni precedenti. Sempre riguardo all’avanzo primario: prendiamo per esempio quello del 2017. O ancora, nella NaDef (Nota di aggiornamento al Def) del 2013, stilata dal governo Letta, tra le previsioni era stato indicato un avanzo primario del 5,1 per cento del PIL. In quella del 2014, invece, l’allora governo Renzi, esso era sceso già al 3,4 per cento, diventato poi il 3 per cento nella NaDef del 2015. L’anno prima, il 2016, nella solita NaDef, l’ultimo redatto dall’esecutivo di Renzi, l’avanzo primario era stato abbassato ancora all’1,7 per cento, ma poi nella realtà si era arrivati all’1,4 per cento.
È andata così un po’ tutti gli anni. Sia in quelli peggiori a livello di crescita sia in quelli migliori, come appunto il 2017, quando l’aumento del PIL fu a lungo il più alto e rispettò le previsioni internazionali, e non si potè quindi affermare che era colpa della “congiuntura negativa”.
A ogni legge di Stabilità, i governi, per compensare il mancato rispetto degli impegni nell’anno successivo, ovvero le maggiori spese messe in programma (come fatto nel 2016 verso il 2017), promettono il massimo rigore per gli anni seguenti, quelli più lontani, rimandandolo però sempre, NaDef dopo NaDef, magari reinserendo la clausola dell’aumento dell’IVA, del cui disinnesco si glorieranno nell’autunno futuro. Clausola questa che però non sostituiranno con altri risparmi.
D’altronde ogni anno c’è stata qualche nuova misura politicamente necessaria da inserire, per vincere un referendum, o le elezioni, o mantenere le promesse e la popolarità, vuoi l’abolizione della TASI per la prima casa, vuoi quota 100, vuoi il reddito di cittadinanza.
Agli italiani interessa immensamente di più il rispetto di questi impegni che quello dei numeri scritti su documenti tecnici oscuri che nessuno legge e di cui tutti i governi si dimenticano dopo averli redatti. Figuriamoci quando, essi, come spesso accade, cambiano.
È un giochino che probabilmente in Europa ormai ci si aspetta e non desta più sorpresa. La fiducia e il rispetto della parola data sono un capitale sociale su cui l’Italia, un Paese allergico al lungo periodo, non ha mai voluto investire. Così come non vuole investire in molto altro.
Il fatto che oggi con una certa condiscendenza politica a Bruxelles ci facciano passare un po’ tutto (o quasi) non vuol dire che quando avremo bisogno questa mancanza di coerenza non ci costi molto, che gli altri europei non vogliano tutelarsi prima di aiutarci. Sta già accadendo, stiamo già pagando questi anni di costante mancanza di rispetto di ogni parola data, la riforma del Mes è un segno. È legittimo preoccuparsi ma i primi da biasimare sono i governi di ogni colore che si sono succeduti finora.