A ottobre 2022, la scrittrice francese Annie Ernaux ha vinto il Nobel per la Letteratura.
«Ho cancellato l’unico senso di colpa che abbia mai provato a proposito di questo evento, che mi sia successo e non ne abbia fatto nulla. Come un dono ricevuto e sprecato. Perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto. E forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino qualcosa di intelligibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella vita e nella testa degli altri».
Così Annie Ernaux, nel 2000, concludeva la stesura dell’Evento, il libro nel quale raccontava la sua volontaria interruzione di gravidanza nel 1963, quando in Francia abortire era illegale; così isolava segmenti di vita per trasformarli in scrittura e in riflessione sulla scrittura.
Oggi questo libro arriva in Italia nella consueta, preziosa traduzione di Lorenzo Flabbi per L’Orma editore, aggiungendo un altro tassello alla trasformazione politica e letteraria dell’io di Ernaux in un noi, della sua esperienza personale in storia collettiva.
A prima vista, a metterne in fila i libri, si potrebbero sintetizzare così: Il posto racconta la vita e il lavoro del padre, Una donna la malattia e la morte della madre, L’altra figlia la sorella che non ha mai conosciuto, Gli anni il rapporto con la storia e la politica, Memoria di ragazza l’iniziazione sessuale, La vergogna un inquietante episodio familiare.
Ma, nell’ossessiva ricerca di precisione biografica, nessuno di questi libri è “solo” una biografia, la verità più profonda è un’altra: La vergogna è la storia di come si sedimentano i tabù nelle famiglie, Memoria di ragazza un’indagine sulla trasformazione della morale attraverso la scoperta dell’esistenza di una vita erotica che può esserne slegata, Gli anni il ritratto liquido e sfaccettato di un’intera generazione, L’altra figlia dà voce alla domanda più terribile di tutte: perché sono nato?, Una donna racconta il distacco e la perdita di chi amiamo e Il posto è un’ipotesi sul mistero dei nostri genitori prima di noi. Così, L’evento non è solo la storia di un aborto, bensì una biografia del corpo femminile attraverso la scrittura, l’esplorazione non scontata di un’idea di futuro, la possibilità concreta della scelta, il godimento e la sofferenza.
Questa donna-reato ha un’arma potentissima: è lei a raccontare la storia, e quando sei tu a raccontarla significa che hai smesso di subirla
Ogni volta Annie Ernaux narra a fondo e intanto esuma il senso del narrare – ci sono i fatti e c’è la domanda sul significato, alla quale nell’Evento si dà la risposta definitiva: tutto avviene per essere raccontato e offerto. Tutto avviene perché si possa trovare un posto in cui non essere fuorilegge e fuori sincrono, come era avvenuto al padre di Ernaux che, prima della letteratura, il suo Posto non l’aveva mai avuto – finché la figlia ha usato tutto il suo talento per raccontarne i luoghi e il destino.
Un talento indomito e deviato, quello di una scrittrice che a ogni libro usa l’impudicizia dell’indagine, perché a usare le parole seduttive sono bravi tutti, ma come possiamo trattare quelle respingenti? Nessun essere umano è illegale, ci piace ripetere, ma esistono invece parole che lo siano? Sappiamo già che la letteratura si occupa delle parole di cui ci vergogniamo, ma non sappiamo ancora cosa accade a una parola che in un sistema giuridico esiste solo come reato.
Nell’Evento, in un tempo scandalosamente vicino, alla parola “aborto” era legata una punizione, la protagonista di questo libro è incinta e vuole abortire: è una donna-reato lei stessa. Del reato ha l’intenzione, l’aspetto, il destino, la premeditazione, la colpa e persino l’ignoranza della colpa, perché non vacilla, non vacilla mai davvero. Questa donna-reato ha un’arma potentissima: è lei a raccontare la storia, e quando sei tu a raccontarla significa che hai smesso di subirla, fino all’ipotesi, rischiosa e inebriante, di non averla mai subita.
La donna-reato ha la voce della libertà nelle galere, la scrittura è in ogni atomo, nelle perdite di sangue, nelle allucinosi, nel ruolo degli altri: nella donna che la fa abortire e nel medico che la aiuta ma non vuole saperne nulla. È una libertà di affinità non biologica («una catena invisibile in cui stanno fianco a fianco artiste, scrittrici, eroine dei romanzi, donne della mia infanzia. Ho l’impressione che la mia storia sia in loro»), una libertà nata da parole-zombie: se “aborto” è una parola illegale, “incinta” è inservibile, perché dispiega un’ipotesi di futuro già morto. Sono entrambi termini non annotabili sul diario, quindi di fatto il tempo dell’evento non esiste. È il tempo di una derelizione, e crea affinità con donne lontane e altrettanto reiette, come la suora che canta «nique nique» ignorando (forse) che “niquer” significhi fottere; il tempo dell’aborto è, come quello della scrittura, un tempo di esclusione dal mondo normale.
Infatti, questo libro comincia con un’altra sala d’attesa e un altro responso, sull’HIV. Comincia con un sollievo, quello di non essere sieropositiva, là dove l’evento dell’aborto cominciava con un responso opposto e con una sensazione di oppressione (si potrebbe obiettare che “aids” non è una parola illegale – ma siamo sicuri che non lo sia?).
Comincia con la paura di aver contratto una malattia per non aver resistito al piacere sessuale e continua con l’interruzione di una gravidanza causata dal non aver resistito al piacere sessuale – «nell’amore e nel piacere non mi sentivo un corpo intrinsecamente diverso da quello degli uomini», e soprattutto: «Nulla impediva al sesso di una donna di tendersi e di aprirsi, anche quando nella pancia c’era già un embrione che avrebbe potuto protestare». Il godimento non ha etica, l’etica è quella che mettiamo o non mettiamo nel raccontare, l’etica è la prospettiva.
L’evento non ha né può avere aggettivi, è il libro da scrivere, la storia da esporre, l’oscenità nel senso letterale: essere fuori da un campo illuminato, e potervi fare ritorno solo dopo aver liberato le parole dal ricatto e dalla sanzione con cui qualcun altro, con dolo, le ha confuse.