Il giorno dei Santi non poteva cominciare peggio per il Partito democratico, con il Corriere della Sera che certifica, attraverso i sondaggi di Nando Pagnoncelli, un «effetto Umbria» capace di portarlo al 17,2 per cento, un punto e mezzo al di sotto delle politiche del 2018. Ma a ben vedere, nonostante l’accanimento con cui il Nazareno ha ribadito la tesi della «tenuta», o addirittura del buon risultato del partito, la verità è che il cosiddetto «effetto Umbria» era già evidentissimo, per l’appunto, in Umbria. E infatti bisognerebbe chiamarlo, semmai, «effetto governo».
Per smentire la tesi secondo cui il 22,3 raccolto dal Pd sarebbe un dato di «tenuta» basta una semplice domanda: se alle politiche del 2018, quelle del disastroso 18,7 a livello nazionale, il Pd raccoglieva in Umbria il 24,8 per cento, ora che in Umbria raccoglie il 22,3, a quanto sta a livello nazionale? Come si vede, si tratta di una semplice proporzione. Il risultato è 16,8.
Si dirà che stiamo proiettando su scala nazionale il risultato di un’elezione locale particolarmente difficile, dopo gli scandali che avevano portato alle dimissioni della giunta precedente. È una giusta osservazione, a cui ne vanno però aggiunte almeno un altro paio. La prima è che bisogna intendersi sul concetto di «tenuta». Se s’intende: tenuta in conto la situazione disperata in cui ci trovavamo, se si tratta insomma di un giudizio espresso in termini relativi, allora è solo questione di punti di vista, e ogni opinione è lecita (anche l’1 per cento può essere un buon risultato, per chi sia convinto di aver rischiato l’estinzione). La seconda osservazione è che gli scandali e le dimissioni della giunta precedente sono avvenuti proprio alla vigilia delle europee, non delle regionali, e il risultato del Pd, alle europee di maggio, è stato il 22,7 a livello nazionale e il 24 in Umbria. Quello sì, letteralmente, un risultato di «tenuta», nel senso che in Umbria il Pd ha conservato alle europee la stessa percentuale delle politiche.
Cosa è successo di nuovo, dunque, tra le europee di maggio e le regionali di ottobre? La novità, ovviamente, è il secondo governo Conte, fondato sull’inedito asse tra Pd e M5s. Per questo, a rigor di logica, più che di «effetto Umbria» bisognerebbe parlare di «effetto governo», che a livello nazionale farebbe precipitare il Partito democratico ben al di sotto del dato delle politiche. Il 17,2 attribuito al Pd da Pagnoncelli non è dunque una conseguenza, ma semmai una conferma del risultato umbro.
Il quadro tracciato da questi dati non può lasciare tranquillo chi guardi con qualche preoccupazione all’ipotesi di un governo Salvini-Meloni fornito di una maggioranza tra il 60 e il 70 per cento dei seggi
Si dirà che le regionali umbre erano comunque elezioni particolarmente difficili, per mille ragioni di tempistica e di contesto che è inutile star qui a elencare (anche perché, al momento, non me ne viene in mente neanche una che non dipenda direttamente dall’azione di governo), e che comunque tra le europee di maggio e le regionali di ottobre è accaduto almeno un altro fatto, per il Pd, non di poco conto: la scissione renziana. Resta però il fatto che in Umbria Italia Viva non si presentava. E alle prossime politiche, invece, ci sarà eccome. Se dunque si votasse domani, a quel 16,8 per cento bisognerebbe sottrarre una quota ulteriore di consensi, che ovviamente non è possibile quantificare esattamente, ma è ragionevole pensare non sarebbe nell’ordine dello zero virgola (da questo punto di vista, il 17,2 di Pagnoncelli appare persino incoraggiante).
Comunque si giudichino il Pd e il suo gruppo dirigente, il quadro tracciato da questi dati non può lasciare tranquillo chi guardi con qualche preoccupazione all’ipotesi di un governo Salvini-Meloni fornito di una maggioranza tra il 60 e il 70 per cento dei seggi, sufficiente per ridisegnare a piacimento l’intera architettura democratica della Repubblica. Ma lascia ancor meno tranquilli sapendo che proprio all’indomani del risultato umbro nel Pd ha preso quota l’idea di andare alle elezioni anticipate, scommettendo, per di più, su un sistema elettorale maggioritario.
L’unica buona – anzi, ottima – ragione per varare questo governo era impedire a Matteo Salvini di ottenere davvero i «pieni poteri». Proprio per questo sarebbe stato meglio un governo tecnico di pochi mesi, sufficienti a mettere in sicurezza le istituzioni e il bilanciamento dei poteri con una nuova legge elettorale proporzionale. Purtroppo, nel Pd e non solo, ha prevalso la linea che giudicava una simile operazione come un pasticcio, contrapponendole la linea del governo di legislatura e dell’alleanza «strategica» con i Cinquestelle. A quel punto, Nicola Zingaretti ha tentato almeno di evitare che a guidare il governo giallorosso fosse lo stesso presidente del Consiglio del governo gialloverde, ma alla fine si è preso lo stesso primo ministro e pure lo stesso programma. L’elenco dei provvedimenti prima contestati e poi confermati è noto e non c’è bisogno di ripeterlo ogni volta, anche perché si fa prima a elencare i provvedimenti simbolo del precedente esecutivo effettivamente cancellati dal governo attuale: neanche uno.
È vero che in tutta questa vicenda Matteo Renzi, dopo avere consentito la nascita del governo, non è stato certo d’aiuto, anche quando si è trattato di decidere il presidente del Consiglio, e ha preferito mettere le vele a favore di vento, lasciando solo il segretario del Pd nella sua opposizione alla riconferma di Conte. Resta il fatto che oggi Zingaretti quello stesso Conte lo propone come candidato alla guida del governo di tutto il centrosinistra alle prossime elezioni.
Tutto considerato, non è poi così sorprendente che il Pd sia scivolato al 17 per cento dei consensi. Stupisce, semmai, che abbia ancora il 17 per cento dei consensi.