La mattina del primo giorno Giovanni si svegliò presto. Quando inserì la capsula del caffè, la macchina fece il rumore che lui più odiava al mondo, quello che segnalava l’esaurimento dell’acqua. Pensò che la giornata stava cominciando male. Poi diede da mangiare ai gatti quei cibi personalizzati che loro amavano e che lui sceglieva, con cura, in un negozio dove andava con una regolarità sconcertante, ogni venerdì, appena uscito dal Barattolo. Scelse la cravatta più bella e non fu difficile, visto che da anni aveva smesso di comprarne. Si sistemò i capelli brizzolati, confermò a se stesso che era sempre un cinquantenne piacente, scoprì una nuova autorevolezza, commissariale, nel suo sguardo e uscì, dando più mandate alla serratura.
In tutti quegli anni aveva infatti temuto che i ladri gli entrassero in casa. Ci sarebbe mancata solo questa. C’era poco da portare via: un Telefunken 24 pollici, una radio Brionvega e qualche cornice d’argento con le foto dei genitori. Quei genitori che se ne erano andati senza la soddisfazione di vedere il loro figlio commissario e, anzi, con l’onta del suo marchiano errore. Il padre era stato, anche lui, poliziotto, e da quando era successa quella che Buonvino in cuor suo definiva “la stronzata” si era chiuso in un ostinato mutismo. Era durato poco tempo. Quando era morto, Giovanni temeva fosse stato per colpa del dolore e dell’amarezza, ai funerali i vecchi colleghi dell’appuntato Buonvino Arcangelo lo avevano guardato con un misto di disprezzo e commiserazione.
Le tre mandate alla serratura servivano così, a un tempo, a evitare che portassero via le sue povere cose da scapolo e, soprattutto, a impedire ai suoi colleghi di ritornare a sfotterlo. Un poliziotto derubato, un ossimoro.
Quella mattina di primavera a Roma c’era una bella arietta, un sole che cominciava a scaldare. A Giovanni sembrava che le persone che incrociava lo guardassero in un modo nuovo, come se avessero tutti saputo della sua promozione, del suo onore ristabilito.
Si recò in via Piave dallo storico fioraio Barduagni, dove aveva comprato la prima orchidea per Lavinia, e questa volta allegò al fiore, lo stesso, un biglietto da visita fresco di stampa. Poche parole sul retro:
VOLEVO SAPESSI CHE CE L’HO FATTA.
FORSE A TE NON IMPORTA. A ME PIACEVA DIRTELO.
TI ABBRACCIO. GIOVANNI
Aveva preparato il testo la sera prima, vergando decine di versioni. Alcune troppo acide, altre lamentose. Questa gli sembrava equilibrata. Il gesto, già bello di per sé, veniva agghindato da parole sobrie, rispettose ma non fredde, non rancorose. E mentre spostava Gullit, che aveva disseminato il tavolo di peli grigi, gli era venuto in mente quel tocco finale: «Ti abbraccio». Il testo aveva così assunto una sua “fisicità”. Se lo ricordava, l’ultimo loro abbraccio. La mattina del giorno da cani. Poi più nulla.
Lei aveva fatto i bagagli in fretta e furia, senza una parola. Sbattuta definitivamente la porta era tornata solo una volta, quando lui non c’era. Giovanni se ne era accorto perché i gatti dormivano sulla coperta che amavano di più. Il diniego dell’uso di quel plaid era l’unica resistenza che lui opponeva al dominio assoluto di Rijkaard e Gullit. Lo teneva chiuso in un armadio, al riparo dalla pioggia dei loro peli.
Quella sera, invece, lo trovò disteso sul letto. I due gatti là sopra stavano beati, lavandosi reciprocamente come sapevano fare, sperimentando una forma di mutuo appoggio che trasmetteva, in quella casa diventata vuota, una sensazione di calore perduto. Cosa era venuta a fare Lavinia? Solo per i gatti o per lasciare un segno, come una briciola di Pollicino?
L’orchidea e quel testo ineccepibile, adesso, erano per Giovanni il modo per continuare a seminare mollica di pane.
Uscito dal fioraio si arrestò davanti a un topo alto come Eolo che, lasciato il lauto pasto del cassonetto ridondante, si era bloccato in mezzo al marciapiede e guardava, immobile, Giovanni. Lui non riusciva a capire se lo sguardo del sorcio era più impaurito o più sfrontato. C’è, anche nelle persone, una sottilissima linea di confine tra sentimenti opposti, come il pianto e le risa. Gli occhi del roditore si collocavano in quel limbo. E, quando poi sparì con la corsa meschina tipica dei topi, lasciò in Giovanni una sensazione di incompiutezza, in fondo non dissimile dalla sua condizione umana, in quella mattina di maggio.
Era finalmente commissario, ma di un commissariato assurdo.
da Assassinio a Villa Borghese, di Walter Veltroni, Marsilio (2019)