Il flop di Cop25Basta coi summit sul clima, serve un tribunale internazionale per l’ambiente

La conferenza internazionale organizzata dall’Onu si è rivelata l’ennesima occasione sprecata. Il problema è all’origine: senza sanzioni agli Stati anche gli obiettivi più semplici diventano irraggiungibili. Serve una corte che vincoli i Paesi a rispettare gli accordi

CRISTINA QUICLER / AFP

La Cop25 è stata un flop, ma non poteva essere altrimenti. Quasi tutte le venticinque conferenze sul clima delle Nazioni Unite si sono rivelate inutili o delle promesse mancate. Come il Protocollo di Kyoto del 2002 il primo documento internazionale che ha imposto l’obbligo di ridurre le emissioni di CO2 ai paesi più ricchi. Avrebbe dovuto salvare il mondo in due decenni, ma dopo solo due anni George W.Bush ritirò gli Stati Uniti dal patto. O la Cop21 del 2015, il primo accordo globale in cui gli Stati in via di sviluppo e quelli industrializzati hanno promesso di limitare l’aumento della temperatura media globale. Ma ancora una volta gli Stati Uniti, questa volta con Donald Trump, si sono sfilati dall’ accordo di Parigi.

Il summit di Madrid non è stata un’eccezione. Bisognava costringere gli Stati ad aumentare gli impegni presi per ridurre le emissioni di gas serra. O almeno definirli. L’unico modo per contenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5 gradi entro il 2100. Se non si farà nulla, secondo la comunità scientifica si arriverà a 3 gradi in meno di un secolo e saranno guai. Finora solo 73 piccoli Stati hanno definito come e quanto diminuiranno le loro emissioni di CO2. Tra questi non c’è l’Italia.

Dopo due settimane di trattative i rappresentanti dei 196 Stati hanno ottenuto solo un rinvio. Entro la Cop26 del 2020 a Glasgow, gli Stati dovranno indicare quanto aumenteranno il loro Ndc, il contributo nazionale sul clima. Ma nessuno sanzionerà gli Stati che non rispetteranno i parametri. E allora che senso ha rivedersi? Non solo. Brasile e Australia hanno fatto di tutto per non trovare un accordo su come attuare l’articolo 6 dell’Accordo di Parigi che dovrebbe regolare meccanismo di calcolo dei crediti nel mercato globale del carbonio. Tradotto: gli Stati che inquinano di meno non potranno cedere la quota rimanente di gas serra a disposizione con i paesi che non hanno tagliato le proprie emissioni abbastanza velocemente.

Le decisioni fondamentali sono rinviate all’anno prossimo, ma la Terra non ha tempo da perdere. Secondo l’organizzazione non governativa inglese Oxfam, gli impegni finora assunti provengono da Paesi che sono responsabili solo del 10% delle emissioni globali. Così sarà impossibile contenere l’innalzamento delle temperature globali entro 1,5 gradi. Nel frattempo la calotta glaciale della Groenlandia si scioglie sette volte più velocemente rispetto agli anni Novanta, l’ossigeno negli oceani sta diminuendo e un quarto della popolazione mondiale (1,9 miliardi di persone) avrà sempre meno acqua a disposizione perché a causa del riscaldamento globale si stanno prosciugano sempre più i ghiacciai di montagna, i manti nevosi e laghi alpini.

Il problema è che la conferenza sul clima non è lo strumento giusto per risolvere l’emergenza del cambiamento climatico. Eventi annuali in cui partecipano quasi 200 Paesi del mondo con esigenze e strategie diverse firmano accordi non vincolanti che sanno di non poter rispettare. E anche quando il summit sul clima viene definito un successo politico, come la Cop21 di Parigi, in realtà gli effetti sono poco incisivi. Perché l’Accordo sul clima di Parigi è un patto straordinario in teoria, ma debolissimo nella pratica. Dopo quattro anni abbiamo visto che non ci sono meccanismi per rendere esecutivi i punti dell’accordo né sanzioni per gli Stati che infrangono le regole. Tante promesse, nessuna azione. E senza gli Stati Uniti, uno dei Paesi più inquinanti al mondo, non ha senso parlare neanche del testo.

Purtroppo non si può salvare il pianeta con un accordo nero su bianco. Servono sanzioni pratiche e legali per vincolare gli Stati. Purtroppo non esiste un’ente sovranazionale in grado di punire gli Stati che non fanno abbastanza per ridurre le emissioni di CO2. L’Onu non ha il potere di fermare le guerre nel mondo, figuriamoci quello di salvare il Pianeta.

La prova che le conferenze sul clima non possono risolvere il cambiamento climatico è il Green new deal voluto da Ursula con der Leyen. La presidente della Commissione europea ha voluto mandare un segnale al mondo: dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Un obiettivo importante, anche se Legambiente chiede che le emissioni siano ridotte del 65%. Ma non si capisce ancora come saranno ripartite le quote tra i 27 membri, pardon 26 visto che si è tirata indietro la Polonia uno dei paesi più inquinanti dell’Ue. Se non si riesce a costringere un piccolo Stato su 27, come si può pretendere di convincere colossi dell’inquinamento come Cina e Stati Uniti a collaborare?

In attesa che l’innovazione tecnologica e il buon esempio di multinazionali, città, enti e singoli individui colmino il vuoto della politica, c’è solo un modo per uscire dallo stallo: creare un tribunale internazionale per l’ambiente, come suggerisce da anni l’ International Bar Association. In effetti dal 2002 esiste un tribunale per crimini internazionali con sede all’Aia che ha giurisdizione su 173 Paesi. Perché allora non creare una corte per i crimini contro l’ambiente operati dagli Stati? Oggi nel diritto internazionale non ci sono leggi che impongano di limitare le emissioni di gas a effetto serra. Rendere vincolante un ambizioso accordo sul clima potrebbe essere il modo migliore per ottenere risultati concreti. E soprattutto evitare 25 accordi deboli in 25 anni e concentrarsi su poche leggi concrete da rispettare.

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