Sarebbe fin troppo facile elencare gli articoli e gli interventi di commentatori, politologi, politici, intellettuali di sinistra in servizio permanente – uno su tutti l’ideologo del “campo largo” zingarettiano, Goffredo Bettini – che dal 2016 si sono sbracciati a dire che Jeremy Corbyn era il futuro della sinistra, perché rimetteva al centro dell’agenda politica il lavoro e la lotta alle diseguaglianze, non il riformismo, al soldo del neoliberismo, guidato da Renzi.
Ora che si trovano nelle mani i cocci del più velleitario progetto politico del XXI secolo e i balbettii del peggior leader del laburismo britannico, non sanno che cosa dire e si arrampicano sui vetri: in fondo ha perso “bene” – formula che racchiude un’intera storia della sinistra italiana – non ha capito la Brexit, ma il programma era giusto, ha perso ma tenga duro e così via.
Sono argomenti che non spiegano nulla, se non che chi nel Pd e dintorni aveva puntato tutto sul “facciamo come Corbyn” ora si trova senza strategia, senza punti di riferimento e si aggrappa al governo, all’alleanza con i cinquestelle per salvare il salvabile: ma purtroppo non sarà cosi.
Infatti la sconfitta di Corbyn non va letta in una prospettiva nazionale, che chiama in causa il sistema elettorale britannico, il peso delle ambiguità del leader laburista sull’antisemitismo, le divisioni interne del labour: con il suo “libretto rosso” che già dal suo nome rievocava l’intera tradizione del movimento operaio novecentesco, il segretario laburista intendeva offrire una nuova prospettiva politica all’intera sinistra europea, uscita stremata dalla grande crisi finanziaria del 2008 perché contro di essa si era infranto il progetto della Terza via che era stata l’unica strategia da essa elaborata in Occidente per fronteggiare la globalizzazione.
Il progetto elaborato da Corbyn non era infatti un semplice programma elettorale. Già la qualità e il profilo culturale dei consiglieri scelti fin dal 2016 per definirne l’ossatura concettuale – dalla Mazzuccato a Piketty a Stiglitz – mettono in evidenza le ambizioni strategiche del segretario laburista: rifondare la sinistra a partire dalla ridefinizione del rapporto tra Stato e mercato che era stato lo spazio su cui si era esercitata l’azione del neoliberismo. Da questo impianto teorico discendevano sia il ritorno alle nazionalizzazioni, sia politiche fiscali hard, sia il rilancio del welfare universalistico come chiavi di volta di una via d’uscita “socialista” alla crisi della globalizzazione neoliberista. Dietro questo vasto programma di rigenerazione sociale si stagliava il ritorno della critica al capitalismo come cifra ideale e cuore programmatico della sinistra, nella convinzione che solo questo “ritorno alle origini” avrebbe potuto ricostruire quel blocco sociale intorno al mondo del lavoro – disperso e abbandonato dal blairismo – su cui ricostruire la vittoria del laburismo.
Sfuggiva a Corbyn, come ai suoi sostenitori in tutte le sinistre europee, che le due epoche storiche nelle quali si costruirono le protezioni sociali per il lavoro e le classi lavoratrici furono in grano di trasformare la loro forza strutturale in un fattore di effettiva redistribuzione della ricchezza – il 1900 -1915 e il 1945-1975 – furono connotate da un intenso e per molti aspetti irripetibile sviluppo delle forze produttive in Occidente, senza il quale la lotta di classe non avrebbe avuto come esito la costruzione di una economia sociale di mercato su cui fondare quel “compromesso progressista” che soprattutto nel secondo dopoguerra riplasmò le nazioni in Europa e nell’America settentrionale e ridefinì la democrazia stessa.
Senza sviluppo, o con uno sviluppo modesto e instabile come quello che si è delineato in Europa in questi anni per il peso ancora elevato delle conseguenze della crisi economica, il ritorno della “mano visibile” dello Stato nell’economia per realizzare un progetto di redistribuzione radicale della ricchezza non può che affidarsi al debito pubblico e a un inasprimento fiscale, inevitabilmente destinato a non toccare soltanto i ricchi, ma anche le classi medie: più che un programma, un wishful thinking, un ebbrezza utopica, poco credibile persino per i suoi destinatari naturali, cioè quel che resta della classe operaia e i ceti disagiati, che rievoca il socialismo d’antan di Michael Foot, l’oppositore della Thatcher alle elezioni del 1983 la cui segreteria e il suo programma elettorale vennero definiti «il più lungo suicidio politico della storia» britannica, per i suoi caratteri velleitari e ideologici.
Se allora combattere in nome della nazionalizzazione delle banche il monetarismo della leader conservatrice si rivelò tragicamente perdente, con un ritorno ai risultati elettorali del 1918, oggi il programma corbyniano viene fragorosamente respinto, ricacciando il Labour ai livelli elettoriali del ’35, perché non appare credibile se questo obbiettivo si sostanzia solo nell’intervento salvifico dello Stato nell’economia.
Infatti il dirigismo economico non appare più come una leva di benessere, ma piuttosto come un moltiplicatore di costi assistenziali non più tollerabili persino per quei gruppi sociali che ne dovrebbero essere beneficati, se non contiene nessun progetto di crescita economica capace di affrontare i nodi irrisolti dello sviluppo: il socialista Corbyn avrebbe dovuto sapere che senza sviluppo delle forze produttive, per dirla con Marx, anche i rapporti di produzione sono destinati a rimanere bloccati nelle forme storiche che li hanno generati.
Ma dietro questo radicalismo socialisteggiante si delinea un’altra questione che si intreccia con la Brexit. Il capitalismo statalmente regolato che ha sostenuto la crescita fino alla fine degli anni ’70, e a cui espressamente si rifà Corbyn, presuppone la centralità dello Stato come regolatore della vita economica e come “imprenditore”: presuppone cioè un presenza statale che la globalizzazione ha fortemente ridimensionato e che non è più possibile ricostruire, perché il caratteri del capitalismo emersi dalla crisi del fordismo non sono più riconducibili a una dimensione nazionale e soprattutto perché sia il trattato di Maastricht, sia i regolamenti degli organismi internazionali, vietano l’intervento dello Stato non tanto in chiave anticiclica, ma come strumento permanente di controllo del mercato.
Dietro l’adesione alla Brexit del gruppo dirigente corbyniano stava la convinzione che solo fuori dall’Europa, schiava del neoliberismo, si poteva riformulare il sogno del socialismo, che è statalista per definizione e che ha sempre guardato con sospetto al mercato, considerato lo spazio ideale di moltiplicazione degli animal spirit del capitalismo. Non è casuale se il più tenace sostenitore di Corbyn in Italia, il deputato di Leu Stefano Fassina, abbia attribuito la sconfitta del Labour alla resistenza europeista di una parte del suo gruppo dirigente che ha impedito al segretario di dispiegare tutta la carica nazionalista del suo ritorno al socialismo: infatti il ritorno al capitalismo statalmente organizzato nella nuova chiave laburista nella quale è l’assistenzialismo e non lo sviluppo il generatore della coesione sociale, non può riprodursi se non fuori dall’Unione Europea, a cui invece la deputata Jo Fox, assassinata dagli estremisti di destra, si ispirava.
In questa chiave Johnson e Corbyn non sono poi così distanti: sono entrambi convinti che solo fuori dall’Europa si possano realizzare il loro progetti. Ma se trasformare la Gran Bretagna in un paradiso fiscale capace di attrarre capitali da tutto il mondo, attraverso i quali garantire anche forme di protezione sociale, come vorrebbe Johnson, può avere un qualche fondamento, realizzare «il socialismo in un paese solo» come ipotizza Corbyn, tassando i ricchi per redistribuire ai poveri e ritornando all’economia “mista” appare a tutti gli effetti un ipotesi irrealistica, perché già sconfitta nel XX secolo: per superare la “terza via” e i suoi limiti bisogna andare avanti e non indietro. Ma la cultura politica di Corbyn come quella di Sanders, Mélénchon, Zingaretti, è del tutto inadeguata a questo immane compito e spetterà ad altri perseguirlo.