Buoni propositiDieci passi (necessari) per fare ripartire l’economia italiana

In “Molto rumore per nulla” i due economisti della Banca d’Italia Paolo Sestito e Roberto Torrini analizzano gli ultimi 25 anni della nostra storia tra riforme abortite e ristagno economico per capire come siamo finiti in questa situazione

FILIPPO MONTEFORTE / AFP

L’ultimo decennio è stato il peggiore per l’economia italiana dal 1948. Il nostro Paese non si è ripreso del tutto dalla grande crisi finanziaria del 2007 e il prodotto interno lordo è ancora sotto i livelli di dodici anni fa. Ognuno ha il suo personale e fantasioso capro espiatorio: il destino, la globalizzazione, le banche, il gruppo Bilderberg, l’Euro. Ma i problemi dell’Italia partono da molto lontano. E forse non hanno una sola causa. Sono almeno venticinque anni che la nostra economia va più lentamente degli altri Paesi del mondo. Nel 2019 a crescita è a zero, il deficit annuale e il debito pubblico aumentano, i cittadini consumano poco, le banche prestano sempre di meno e le imprese diminuiscono gli investimenti. In una parola: stagnazione. Perché l’Italia è finita in questo vicolo cieco? E potrà uscirne prima o poi? Due economisti della Banca d’Italia, Paolo Sestito e Roberto Torrini hanno provato a dare una risposta nel saggio Molto rumore per nulla, in cui descrivono con numeri e tabelle le politiche economiche e sociali del decennio della crisi. Dal mercato del lavoro al sistema educativo, dal funzionamento della giustizia agli investimenti infrastrutturali sono tanti i dilemmi, i limiti e i tentativi della classe politica di riformare l’italia, quasi sempre estemporanei e discontinui: «I problemi dell’Italia vengono da lontano. Non è facile trovare una soluzione immediata. Mentre nel dibattito politico si cerca la ricetta facile o il capro espiatorio contro cui scagliarsi. Per ripartire bisogna pensare alla vastità e soprattutto complessità di questi problemi perché dieci anni di stasi economica iniziano a essere tanti», spiega Paolo Sestito.

Ecco Sestito, nel saggio non vi limitate a fare un preciso affresco dell’economia negli anni Dieci ma avete anche stilato un piccolo decalogo per far ripartire l’Italia al meglio nel 2020. O almeno farla partire. Ma come?
Europa, crescita economica inclusiva e risanamento fiscale sono le tre stelle polari che a nostro avviso dovrebbero guidare la politica economica, a prescindere dagli orientamenti culturali e politici di chi governa e di chi è all’opposizione. Non vogliamo proporre un’agenda di governo ma contribuire al dibattito su una possibile strategia di rilancio del Paese.

Da dove si comincia?
Dal capitale umano. Deve tornare a essere una priorità nazionale. Il livello di conoscenza e di competenza della popolazione italiana è basso. Da noi, circa un quarto della popolazione adulta ha una laurea, contro la media del 40% dei Paesi avanzati comparabili al nostro per livello di sviluppo. Il problema non è solo la quantità ma la qualità della formazione. Un Paese avanzato deve essere anche all’avanguardia dello sviluppo tecnologico. Non si può essere ricchi a lungo se non si è tra i più avanzati nell’innovazione.

Nel saggio sostenete una posizione di buon senso, ma forse provocatoria in questa era sovranista: l’unica collocazione possibile dell’Italia è in Europa.
Più che una considerazione politica è geografica. L’Italia è un Paese relativamente piccolo all’interno dell’Europa. Non avrebbe la possibilità d’immaginare una eventuale uscita felice dall’Unione europea. Perché a differenza del Regno Unito che sta attuando con molta difficoltà la sua Brexit, non ha un passato consolidato di relazioni commerciali extraeuropee. Per storia, cultura, economia e finanza la nostra Penisola è interconnessa con il Vecchio Continente. Sarebbe difficile rilanciarsi da soli partendo da zero.

Così com’è stato difficile in questi anni governare l’emergenza immigrazione.
L’Italia finora non ha governato il fenomeno migratorio. L’ha subito. Sono arrivate migliaia di persone che non potranno essere rimpatriate tutte. Sarebbe non solo inumano ma impossibile. E in questi anni ci sono state tante regolarizzazioni. I governi di qualsiasi colore hanno investito poco o nulla nell’integrazione perché non sono state in grado di guardare al lungo termine. Per esempio alle seconde generazioni che ormai sono il 10% degli studenti italiani. La politica che guarda all’oggi e si perde nella retorica buonista o cattivista non è sostenibile. Stiamo creando delle bombe che esploderanno nel futuro. Servirebbe una gestione ragionata che ci faccia trarre il meglio dalle migrazioni che hanno il merito di risolvere in parte il nostro problema di calo delle nascite.

Nel 2019 si è parlato molto di imposte: flat tax, plastic tax, web tax, sugar tax, evitare l’aumento dell’Iva. Le coperture da qualche parte bisogna trovarlie per diminuire il debito pubblico ma allo stesso tempo non si può deprimere la crescita. Cosa si dovrebbe fare a partire dal 2020?
Ogni gruppo sociale o partito politico ha i suoi totem ma dobbiamo sempre ricordare che la progressività fiscale è un principio costituzionale quindi almeno in questo la politica è vincolata. Secondo noi per favorire la crescita bisognerebbe tassare di più i consumi e il patrimonio e di meno i redditi da lavoro e da impresa. Così si stimolerebbe l’iniziativa imprenditoriale e l’offerta di lavoro.

Dal 2008 a oggi sette governi hanno attuato ricette economiche molto diverse con lo stesso risultato finale: il debito pubblico al 134%. Cosa hanno sbagliato?
Per ridurre il debito pubblico bisogna mettere ordine nei conti fiscali da una parte, ma al tempo stesso facilitare la crescita dell’economia. Non si può pensare di fare solo una delle due cose. Le politiche fiscali non possono dimenticare l’equilibrio dei conti. Magari alcuni provvedimenti economici erano giusti in teoria, ma spesso sono state attuate a strappi, in modo incoerente. Mentre servirebbe prudenza e soprattutto continuità. Non si può pensare di dare una grande spinta all’economia della domanda riducendo tutte le imposte, né incrementando la spesa. Non c’è spazio fiscale disponibile, bisogna essere realisti.

Realismo vuol dire patrimoniale?
In generale l’imposta patrimoniale non deve essere un tabù. Ha pregi e difetti. Ma un conto è avere alcune forme di imposta sul patrimonio in una situazione normale, un’altro è pensare che una tassa patrimoniale straordinaria possa risolvere da sola i problemi del debito pubblico italiano. Non è fattibile, sarebbe un quasi default mascherato. Secondo noi serve un discorso più graduale che rispetti il principio di progressività fiscale: ovvero il risanamento dei conti per un certo periodo di anni dovrebbe essere prevalentemente a carico dei più abbienti.

Un altro punto centrale del vostro decalogo è aggiornare la Pubblica amministrazione. Brunetta, Madia e Bongiorno ci hanno provato ma forse c’è ancora molto da fare. Cosa proponete?
Di riorganizzare la macchina burocratica e i suoi settori in base alle politiche pubbliche di lungo periodo che si vogliono raggiungere. In passato ci si è fissati sul riformare grandi regole generali sul pubblico impiego e i processi amministrativi. Bisogna dare più peso alle agenzie pubbliche che hanno maggiore autonomia e una missione ben precisa. Così si possono responsabilizzare meglio i vertici. Le agenzie fiscali si sono riformate di più e per questo sono efficienti e all’avanguardia nell’utilizzo della tecnologia. Il problema è che la politica abusa dell’espressione “riforme strutturali”. Come se esistesse un’agenda predefinita che si può prendere da qualche vademecum internazionale di regole i mmediatamente implementabili effetti positivi sull’economia. Non è così.

Ci sarà qualcosa che sarà andato bene in questo decennio di riforme.
Certo, la riforma del sistema universitario ha responsabilizzato di più gli atenei. Il problema però è che sono mancati i finanziamenti. Se gli investimenti fossero stati gli stessi di dieci anni fa ci sarebbe stato un maggiore impatto positivo. Anche la riforma Fornero delle pensioni ha avuto effetti positivi sul tasso di attività e sugli equilibri del sistema previdenziale. Purtroppo c’è stata una rigidità nel non prevedere flessibilità nei meccanismi di uscita dal mercato del lavoro.

Tradotto: gli esodati. Un altro problema di questo decennio è stata la concorrenza. Monopoli secolari in alcuni settori, eccessiva competenza globale in altri.
In questi anni le imprese italiane sono state schiacciate da problemi di competitività con i nuovi e tradizionali concorrenti stranieri, ma hanno subito anche gli effetti di un deficit di innovazione, dovuto all’eccessiva frammentazione del sistema produttivo. La quasi totalità delle aziende italiane sono piccole e medie imprese, ma questo non è sinonimo di concorrenza, anzi. Esistono molte clausole a favore delle pmi che rendono alcuni settori dell’economia meno intraprendenti per le imprese che non vogliono solo difendersi ma desiderano crescere e innovarsi. Si può partire da lì per rendere il mercato più dinamico.

Nel saggio avete suggerito di reintrodurre un incentivo per le imprese: l’Ace (aiuto alla crescita economica) che il Governo Conte ha inserito nella Legge di Bilancio. Perché è così importante per le imprese?
È un sistema che spinge le imprese a indebitarsi meno e ad aumentare invece la loro capitalizzazione. Di solito per un’impresa gli interessi sul debito stesso possono essere detratti dal reddito imponibile. Mentre l’aumento del capitale non viene quasi mai premiato con detrazioni fiscali. Questo provoca una struttura di incentivi perversi per cui l’impresa punta più a indebitarsi anziché rafforzare il proprio capitale. L’Ace blocca questo incentivo perverso.

Un ultimo consiglio per il 2020 da pescare nel vostro decalogo: il mercato del lavoro. Cosa bisognerebbe fare?
Serve una riforma seria delle politiche attive del lavoro. E bisogna intervenire anche sulla contrattazione: un’area in cui ancora è stato fatto troppo poco perché rimane centrata sul contratto nazionale più aggirato che applicato. I contratti fissano regole troppo invasive perché i minimi salariali sono più alti dei due terzi del salario medio, molto di più che in altri Paesi europei. Ma allos tesso temponon sono efficaci perché non hanno valenza di legge. Quindi non danno garanzie al lavoratore più debole perché non c’è certezza che saranno applicate.

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