Le vere sardine? gli operaiItalia 4.0? Mica tanto: ecco perché il bilancio del 2019 è negativo anche per l’industria

La produttività nel nostro Paese è ferma da 23 anni: colpa di una politica che non ha saputo valorizzare le realtà produttive, ma anche di un’impresa che non è stata capace di pensare con lungimiranza al futuro, e di abbracciare la sfida della digitalizzazione

Vincenzo PINTO / AFP

Produttività: volendo fare un’hit parade delle key word che hanno segnato questo annus horribilis dell’industria made in Italy – ci spiace scomodare la terminologia più drammatica di Casa Windsor per definire il 2019 – è proprio alla produttività che spetta il primato. Se non altro come tema di discussione. C’è chi avrebbe da polemizzare sulle esagerazioni pessimistiche, espresse da più parti nelle valutazioni di fine anno. C’è chi è convito che, sì, forse il 2019 non è andato alla grandissima, ma in ogni caso siamo fuori dalla recessione. D’altra parte, un allarme o si suona a tutto volume, oppure non ha senso neanche pensare di lanciarlo. C’è poco da giocare sull’opinabilità dei numeri, infatti. L’Istat stima che il Pil reale si fermerà a +0,2% nel 2019 e a +0,6% nel 2020, dal +0,8% dello scorso anno. Federmeccanica, nella sua indagine di inizio dicembre, dice che, nel terzo trimestre del 2019, la produzione metalmeccanica è diminuita dell’1% rispetto al trimestre precedente, mentre nel confronto con l’analogo periodo del 2018 il calo è stato del 2%. Peggiori sono i dati di Assofond, le cui fonderie registrano una flessione del 4,5% nei primi nove mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2018. Infine Federacciai: -9,8% sul 2018. Messa così, si tratta di un vero e proprio bollettino di guerra che fuga qualsiasi dubbio appunto sul bellissimo anno che stiamo per concludere.

Le spiegazioni, quelle più contingenti, sono note a tutti. Germania mai così male dal 2009, scontro dei dazi Usa vs Cina, automotive giù, componentistica pure, e via così. La classe politica è stata migliore che in passato a identificare subito cause esogene alle proprie politiche economiche, sviando così dall’atteggiamento adottato nel vedere – come diceva Churchill – l’impresa come una mucca da mungere e non come un robusto cavallo che traina un carro pesante. Ma il non-è-colpa-nostra ha fatto ben poco nel nascondere il mea culpa che l’esecutivo avrebbe dovuto fare sulle proprie responsabilità. Perché è vero che la plastic tax è stata congelata, ma non la sugar, che va a colpire le imprese e non il consumatore. Inoltre, adesso si mormora che, invece di togliere il peso fiscale su alcuni settori, se ne voglia coinvolgere altri, il vetro in particolare, in modo che, facendoli soffrire tutti, nessuno possa sentirsi discriminato. Vien da dire che chi dovrebbe scendere davvero in piazza a fare le sardine è il mondo produttivo. Servirebbe una nuova marcia dei 40mila, come quella del 1980 che attraversò le strade di Torino, per protestare contro l’occupazione delle fabbriche. Oggi, un evento di massa, un flash mob per dirla alla trendy maniera – magari con la partecipazione anche degli operai – potrebbe far capire alle istituzioni che senza industria un paese non cresce. “Il lavoro si difende lavorando”, si leggeva si uno striscione di quel lontano 14 ottobre. Copyright permettendo, non ci sarebbe nemmeno bisogno di cambiare il messaggio.

D’altra parte la vulnerabilità strutturale della nostra economia non è da imputare tutta ai gialloverdi e giallorossi e alle loro scelte da analisi. Secondo un’indagine condotta da InfoCamere, il 40% delle imprese censite, 5 milioni in totale, non attribuisce all’Intelligenza artificiale la priorità necessaria per la realizzazione di un serio piano di sviluppo e crescita.

Il dato conferma quello che gli analisti lamentano da tempo. Intrecciandolo infatti con l’atteggiamento anti-industriale delle istituzioni, emerge l’urgenza di intervenire sui modelli organizzativi che caratterizzano il nostro sistema imprenditoriale. Produttività, quindi. È nella sintesi tra tecnologia, sostenibilità ambientale e nel riassetto del mercato del lavoro, secondo sistemi codificati e 4.0, che risiede la formula corretta perché la nostra economia possa tornare a essere competitiva.

Tempo fa si è scritto dell’irreversibilità di un fenomeno come la digitalizzazione. Un’opportunità o una condanna, a seconda dei punti vista, che vede coinvolte tutte le categorie di lavoratori dipendenti e liberi professionisti. È bene essere chiari: quando si dice che dal discorso nessuno può dirsi escluso, le prime chiamate in causa sono le imprese. È proprio negli stabilimenti che si consuma quel gap di produttività che pesa sull’economia e, come un volano pericoloso, condanna alla chiusura molte unità produttive.

In Italia l’industria dell’automazione, dei robot e delle macchine utensili vale circa 7 miliardi di euro. La cifra non è da wow. Tuttavia, è il suo posizionamento nello schema delle attività produttive che va tenuto ben chiaro. Intelligenza artificiale e digitalizzazione sono basilari per la competitività di tutte le imprese e dei territori in cui operano. Assegnano un valore aggiunto al prodotto, per il quale si risparmia in termini di produzione, pur aumentandone le qualità. Hanno un impatto sociale, in quanto inducono il singolo individuo a intraprendere un cammino di formazione e aggiornamento professionale. Infine sono eco friendly. Una fabbrica intelligente è una fabbrica dotata di una linea di risparmio energetico e che tende a eliminare gli scarti di produzione.

Una bella teoria, questa, che però sembra non aver scalfito né il cuore delle istituzioni né la sensibilità – utilitaristica e pratica – dei piccoli e medi imprenditori italiani. Osservando quanto scritto dall’Istat, che ha calcolato una produttività a crescita zero in Italia dal 1995 a 2018 – sono 23 anni! – potremmo parlare di una “stagnazione secolare”, dovuta a un costante disinteresse, da parte delle imprese, a investire in processi innovativi e, al tempo stesso, a una situazione di invecchiamento della popolazione, anche nelle aziende, che non permette a queste ultime di osservare le cose con una prospettiva di lungo periodo.

Ora, vista la complessità del tema, non si pretende un’inversione di rotta nel 2020, al punto che tra dodici mesi si abbia tra le mani uno scenario speculare rispetto a quello odierno. Le imprese chiudono il 2019 tirando un sospiro di sollievo per il ripristino del piano Calenda, sebbene modificato. Siamo tutti d’accorto che le misure contenute in quel pacchetto siano il giusto input per definire un modello produttivo made in Italy, capace di rispondere alle evoluzioni dell’Industria 4.0. Ora però bisogna proseguire su questa strada. Il problema è politico. Perché con i 5s che intendono redistribuire reddito, la Lega che fa da sponda alle micro imprese e il Pd che naviga nel buio, non si capisce chi, tra i maggior partiti, potrebbe assumersi l’onere di passare dalle analisi a una riforma strutturale che abbia effetti espansivi sulla produttività.

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