La comunità internazionale ha chiesto all’Arabia Saudita di riparare a una violazione dei diritti umani. Per farlo, Riad ne ha commessa un’altra. I politici occidentali hanno ottenuto quello che la loro stampa chiedeva, ma i veri mandanti dell’omicidio rimarranno impuniti. Questo è il paradosso dell’omicidio di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita, corrispondente del Washington Post, ucciso il 2 ottobre 2018 nell’ambasciata del suo Paese a Istanbul. Era entrato per ottenere dei documenti per poter sposare la sua fidanzata turca. Non è più uscito, almeno da vivo. Fuori, Hatice Cengiz lo ha aspettato per ore, ma il suo corpo era stato fatto a pezzi e il consolato ripulito dal sangue. Nessuno l’ha più ritrovato.
Dopo smentite, depistaggi, ricostruzioni fantasiose, e tre mesi di pressione della comunità internazionale, a gennaio l’Arabia Saudita ha aperto un processo. Il 23 dicembre è arrivato il verdetto: cinque condanne a morte per gli esecutori materiali. Assolti invece i tre principali imputati, tra cui Mohammed al-Otaibi, il console generale dell’Arabia Saudita a Istanbul e Saud bin Abdullah al-Qahtani, ex consigliere reale e consulente dei media del principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, per mancanza di prove. Eppure secondo un’indagine condotta a giugno da Agnes Callamard, relatrice speciale Onu per le esecuzioni extragiudiziali, e un’altra dei servizi segreti turchi ci sarebbero prove evidenti del coinvolgimento dei funzionari reali. Addirittura secondo la Cia, Bin Salman avrebbe direttamente ordinato l’omicidio all’interno del consolato perché Khashoggi era considerato una minaccia nazionale, per i suoi articoli contro la casa reale.
L’Occidente ha chiesto un processo e l’Arabia Saudita ha risposto con una farsa, almeno secondo Lynn Maalouf, direttrice della ricerca in Medio Oriente Amnesty International: «Questo verdetto è una copertura che non porta giustizia né verità per Jamal Khashoggi e i suoi cari. Il processo è stato chiuso al pubblico e agli osservatori indipendenti, con nessuna informazione disponibile». E così se non si appelleranno, cinque uomini di cui non conosciamo né il nome né il volto, saranno uccisi a Sāḥa al-Ṣifā, la piazza dove avvengono le esecuzioni. Secondo l’Agenzia France Presse tra questi dovrebbero esserci con relativa certezza Salah al-Tubaigy, il medico legale che ha dissezionato il corpo di Khashoggi, Fahad al-Balawi, un membro della guardia reale saudita e Maher Abdulaziz Mutreb, un ufficiale dell’intelligence che secondo gli Stati Uniti lavorava direttamente alle dipendenze di al-Qahtani. «I sicari sono colpevoli, condannati a morte. Le menti non solo camminano libere. Sono state a malapena toccate dalle indagini e dal processo. Questa è l’antitesi della giustizia. È una beffa», ha commentato su Twitter Agnes Callamard.
Un modo per far fuori potenziali testimoni che avrebbero potuto raccontare chi è stato il loro mandante? Non lo sapremo mai. Di sicuro i cinque non potranno più dire al mondo chi ha impartito l’ordine. Il 25 ottobre il procuratore generale saudita, Shalaan al-Shalaan ha ammesso che l’omicidio di Khashoggi è stato premeditato. Nessun raptus di un poliziotto irascibile, nessuna morte causata dalle percosse. Ma un delitto pensato e organizzato da tempo in tutti i particolari. Secondo l’accusa il vice capo dell’intelligence Ahmed al-Assiri, anche lui assolto dalla corte, avrebbe supervisionato l’uccisione dell’editorialista del Washington Post, sotto pressione di al-Qahtani. Invece nel verdetto la Corte saudita sostiene che l’omicidio dei cinque non era premeditato: «La decisione è stata presa al momento». Eppure come ha spiegato Callamard: «La presenza di un medico legale arruolato nella squadra di uccisione ufficiale almeno 24 ore prima del crimine e la discussione sullo smembramento (del corpo di Kashoggi, ndr) 2 ore prima che si verificasse effettivamente, indica chiaramente anche la pianificazione».
L’ex console saudita a Istanbul al-Otaibi è uscito di prigione dopo la sentenza. Il Dipartimento di Stato Usa ha confermato a lui e alla sua famiglia il divieto d’ingresso negli Usa per il «coinvolgimento in gravi violazioni dei diritti umani». Troppo poco, troppo tardi. Abbiamo capito che l’Arabia Saudita è un partner strategico per l’Occidente. Nessuno si aspetta che la comunità internazionale riesca a imporre una condotta democratica o rispettosa dei diritti umani a Riad. Purtroppo nessuno ha la forza politica o militare per fermare i crimini contro i diritti umani commessi in Corea del Nord o pretendere chiarimenti dalla Cina su come sono trattati gli Uiguri. Figuriamoci se si possa fare lo stesso con Riad.
Ma l’Onu, l’Unione europea e gli Stati Uniti potevano fare pressioni per ottenere il minimo: un processo a porte aperte o almeno a telecamere accese. E soprattutto una condanna che rispettasse almeno i diritti umani. «Non mi aspetto che boicottiate l’Arabia Saudita, è naturale che i leader mondiali proteggano, i loro interessi economici, ma dovranno dire qualcosa sull’assassinio di Jamal Khashoggi», ha detto la scorsa settimana Cengiz al Corriere della Sera, prima di essere invitata al Senato da Emma Bonino. Abbiamo capito tutto e non ci stupiremo delle contraddizioni che la geopolitica crea, ma i media occidentali devono continuare a fare pressione per non far spegnere i riflettori sulla vicenda. Non certo per cambiare il mondo. Solo per ottenere un angolo di giustizia nelle logiche della Realpolitik. Non si può mollare, anche se sappiamo già che sarà una fatica di Sisifo.