Tra le trasformazioni che arriveranno nei prossimi 10 anni c’è anche, forse meno raccontata, quella dell’industria della moda. Cambierà le abitudini di consumo, si comprerà meno – o meglio – nasceranno nuovi lavori e nuovi servizi. E soprattutto, come spiega Francesca Romana Rinaldi, docente all’Università Bocconi, esperta in strategy e autrice, per Egea – Bocconi University Press, di Fashion Industry 2030. Reshaping the future through sustainability and responsible innovation, sarà tutto incentrato intorno al concetto di sostenibilità. Non per niente partecipa, insieme ad altri stakeholder del settore, all’evento di WSM Fashion Reboot (che vede in campo il Mise, Ice – Agenzia, Confartigianato Imprese e il comune di Milano), dedicato proprio alla promozione del tema nell’industria. E Linkiesta la incontra qui.
“Sostenibilità”. È una parola che ormai si sente ovunque. Ma cosa significa per la moda?
Prima di tutto, circolarità. È una novità per il settore, oggi è diventato necessario che anche la moda si occupi del waste, cioè dei rifiuti creati dal suo processo produttivo. È poco sexy da dire, ma è la verità.
E come deve fare?
Intervenendo nel processo produttivo. È difficile perché si dovrà rivoluzionare tutta la catena del valore su cui si è basata fino a questo momento. Oggi il modello è lineare: le aziende trovano le materie prime, creano i prodotti e li vendono. Tocca al consumatore sbarazzarsene, finendo per aumentare la quantità di rifiuti nel mondo. In futuro il modello dovrà essere invece circolare: le aziende studieranno modi per “allungare” la vita del capo oppure per riciclarne i componenti. Alcune lo fanno già.
In che modo?
C’è chi si offre di ritirare il capo e di occuparsi al suo posto del suo smaltimento, soprattutto per i capi in poliestere. Questo permette di recuperare diverse materie prime, diminuendo la quantità di rifiuti in circolazione e riavviare il ciclo produttivo. Oppure, in modo molto più semplice (ma di impatto), con la riparazione gratuita, che di fatto è il primo passo. In generale, sono iniziative volte a sensibilizzare il consumatore e a dargli suggerimenti per estendere la vita del prodotto. Sono behavioural campaign. Il nuovo fashion diventerà l’opposto del fast fashion che ha caratterizzato i primi anni di questo secolo. Un timeless approach, che definscono slow, prima di tutto. Punterà al mantenimento, alla durata, alla qualità. E, soprattutto, al ruolo centrale del consumatore – che sarà sempre più coinvolto nel processo produttivo della moda.
In che senso?
Consideriamo la nuova catena del valore: sul lato estrazione ed elaborazione di risorse, attività che erano già esistenti, la novità è l’aumento della trasparenza (il cliente è sempre più interessato alla reputazione delle aziende, e i social hanno potenziato questo aspetto), della tracciabilità (l’acquirente vuole sapere il percorso che ha fatto il capo fino al fourth tier, cioè il primo subfornitore) e poi, come è già detto, della circolarità. È qui che si vede come il consumatore partecipi alla vita stessa del prodotto. Per questo motivo quello che cambia di più con la nuova value chain è la comunicazione, che viene rivoluzionata: non possiamo più pensare che le aziende di moda sostenibile non mettano al centro il consumatore. Il cliente va attivato, in tutte le fasi – non solo nel momento della fine del prodotto – ed è alla base di tutto. Anche perché è proprio intorno a lui che nascono nuove attività che, al momento, non ci sono.
Quali?
Tutta quella dell’use care & disposal, per esempio. Non sono più in carico al consumatore, come nella linea del valore tradizionale, ma diventano una responsabilità comune. Le aziende dovrrebbero – non lo fanno ancora molto – suggerire al consumatore come utilizzare quel capo. E poi c’è il recycling, che può essere upcycling (si dà maggior valore a un capo durante il riciclo) o downcycling (che è il contrario).
E in tutto questo la nuova catena del valore prevede l’inserimento di nuove tecnologie.
Esatto. Si parla di integrazione dell’Industria 4.0 nel manifacturing, ma non solo: il punto chiave sarà la blockchain. Tecnologia decisiva per la trasparenza e la tracciabilità della filiera, molto importante poi contro la contraffazione, e utilissima per facilitare la circolarità stessa. Poi c’è l’Internet of Things: i nostri guardaroba del futuro saranno collegati alla rete. E potranno monitorare i nostri capi, tenendoci informati sul loro stato, sulla regolarità dei lavaggi, sulla loro quantità. E ci impediranno di fare sprechi.
Parlate anche di AI e machine learning.
Sì, sono fondamentali, soprattutto per il lato azienda. Permettono di leggere bene i dati a disposizione consentono, in questo modo, di ridurre gli stock. È l’ottimizzazione della struttura delle collezioni, che punta a evitare gli sprechi – in teoria le aziende del futuro dovranno produrre proprio quello che servirà per soddisfare la domanda dei consumatori. Una visione che hanno confermato molti degli esperti del settore, anche tecnologico, che ho intervistato nei miei tre anni di ricerche per la scrittura del libro.
Lei ha detto “in futuro”: ma quando ci si arriva?
Una rivolzione della catena del valore non si può fare domani. Sarà graduale e ci vuole tempo, ci vogliono iniziative – come questa, per esempio – che puntano a creare community e partnership per sensibilizzare sul tema della circolarità. Ma ormai è una strada tracciata. Dal punto di vista del “come”, invece, credo che la spinta arriverà dal basso. Saranno piccole aziende, startup innovative, che inventeranno nuovi sistemi di produzione che saranno adottate dalle grandi aziende. Per tradizione, i big player sono più lenti ad adeguarsi alle novità, è anche una questione di struttura. Ma sono ricettivi. E valorizzano le idee di startup. Alcuni, come Ferragamo, hanno già cominciato finanziando progetti esterni. Altri li sviluppano dall’interno con centri di ricerche appositi o, altri ancora, li incamerano acquisendoli. In ogni caso, i parametri sono: supporto ai player con innovazione responsabile nel dna e poi innovazione nei processi. Un percorso che non può essere da 0 a 100 subito. Richiede tempo.
Ma una volta che ci sarà l’implementazione tecnologica, che permetterà di ridurre i costi senza intervenire sul personale – e alla luce dell’interesse del consumatore nei confronti della tracciabilità della filiera – è pensabile un reshoring delle aziende?
Lo spero. Sarebbe un bene per il made in Italy. Ma va detto che è una tendenza già in atto, sotto certi aspetti.
Ma ha visto anche differenze regionali sull’innovazione?
Considerando il sistema Italia, al di là delle proprietà, direi che il Paese ha una grande opportunità, da giocarsi ora. Nel 2019 c’è stato un clic: nel 2020 potremo vedere se l’Italia si è avviata sulla giusta strada. Sarà in questo anno che si potrà verificare se i progetti messi in campo finora siano reali e seri. Su questi si costruirà il futuro dell’industria.