Voglio fare una tirata un poco eterna, voglio sconvolgere l’agenda: prendo un appuntamento e ne do un altro poco dopo, avendone dato un altro poco prima. Sarebbe normale se non fosse che, diverso il posto, l’ora è la stessa nello stesso giorno. Mi scateno, dico sì a tutto, nelle stesse ore, negli stessi giorni, così quel tutto se ne va nel nulla di fatto, così che in ogni luogo definito non ci sono, però ci sono per definizione, avendo definito d’esserci. Ci sono che non mi si vede, non sono un fatto ma sono tutto il resto. Mi infingo nella dimenticanza di aver dato appuntamenti. Capisco un dio che sia dimenticanza e amnesia: c’è che non si vede in ogni luogo per tutto il tempo, avendo dato appuntamento a tutto, per esempio. È tutto a mo’ di esempio l’esistente, non è un fatto, è un come (se lo racconti te ne accorgi: come un’altra cosa, così ogni cosa è).
Nemmeno il verbo fare è un fatto se con come participio passato (passato!), ossia come un esempio senza fine al presente. Tutto gira intorno a questo perno: l’infinito, il non compiuto, il non fatto (relativo) a mo’ d’esempio del non fare (assoluto). Non fare cosa? Non far nulla (è l’unico esempio di doppia negazione come esempio di perfezione), non farlo quindi farlo, eccolo qua: il nulla. Tutto l’esistente fa tutto per esempio, come esempio del far niente. Ossia rende l’idea del nulla, pallida idea, pallidissima, diafana fino alla trasparenza, e ci guardi attraverso. Guardiamo il tutto ma attraverso il nulla, o no? Che magnifico effetto ottico, è come seguitare una muraglia con sopra culi tondi di bottiglia (fui anche lui?).
Ecco fatto, sennò non se ne esce, non si capisce mai che cosa è il nulla, adesso si capisce, è tutto chiaro niente. Il tempo ce l’ho tutto, ho tutto il senso in pugno, quel senso di infinito e di nient’altro, quindi sono, per intanto, il giovane Laforgue (lo fui?) nell’attesa che il tempo passi come un bus alla fermata, ma il tempo non si ferma, se si ferma è perduto, oppure non esiste e allora non esiste che si fermi. E poi quell’altro patapùnfete, Jarry (fui anche lui?): l’amore è un atto senza importanza perché si può fare all’infinito (il fare è l’infinito del verbo fare). Questi due, increduli di tutto (anch’io), hanno l’infinito come perno oltre che in cartellone, uno spettacolo concluso nell’annuncio. Come perno, non come prospettiva ossia contorno vago; precisamente hanno l’infinito come centro, non oltre l’ermo colle ma qui e ora. Anche l’Infinito fu, anzi è (lo sono anch’io) una poesia centrale assai, e allora non prendiamoci in giro, non ci stemperiamo nell’olio e nella trementina del circostante ossia nel paesaggio dipinto per gli occhi di chi crede che l’infinito sia nel quadretto e non sulla punta acuminata del pennello. Quel mezzo verso, “io nel pensier mi fingo”, diciamolo al contrario, è più rabbrividente: mi fingo nel pensiero. Avevo scritto “mi figgo”, mi conficco nel pensiero, poi intervenne il correttore automatico (che è sempre esistito, che è sempre veritiero) e venne fuori ‘fingo’ che pure è un conficcarsi ma di più.
Mi fingo nel pensiero, pensare è un fingermi, configgermi pensante. Non è questione se io sia io o finga d’essere me, la questione è che mi fingo in me, “in” nel mio pensiero se così posso dire (posso, l’ho detto). E allora l’infinito oltre l’ermo colle è zuppa diluita per la truppa paesaggista. Veniamo a me, dico, e in me mi conficco, lasciando tutti fuori. Quel “ma”, “ma sedendo e mirando” è sedendo voi, è voi mirando, voi assettati, voi miranti: ecco mettetevi seduti e mirate il quadretto che v’ho appena dipinto, gli spazi, i silenzi, la quiete (è o no silenzioso un bel quadro spazioso e calmo calmo?), e distraetevi da me, fate il favore.
Io, per intanto, vado a fingermi nel mio pensiero e, conficcato in me, sfioro pungente il cuore, che pure è in me. È ovvio che il mio cuore si spaventa e dalle froge ventricolari soffia furioso il sangue nei vasi e lungo i rami sanguigni e rampicanti, e io sento stormire le fronde dei miei organi interni, mentre il mio cuore come un’anta di finestra sbatte al vento. Ecco qua, in me a confronto, il mio cuore rumoroso e il mio silenzioso pensiero, e io mi sento (mi sento!) totalmente solo. E questo attrito tra pensiero e cuore sviluppa in me quel senso oltre i miei cinque, quel senso, il sesto, d’infinito, il solitario infinito (non ce n’è un altro). Ecco com’è.
E parlerei anche, per non parlarne più, di quello che si chiama “attrito linguistico”: la perdita dell’abilità del mio linguaggio, così che le parole se le porta il vento (conosco i classici: l’inarrivabile canzone “Io sono il vento” nell’immortale e sfrontata interpretazione di Arturo Testa nel salone delle feste, voce e fischio e interiezione ohohoh e braccia larghe e anche mani in tasca davanti a brillocchi e smoking nel cinquantanove del secolo scorso). Anche perché il silenzio è infinito più di ogni parlare. Dolcissimo naufragio, anche amoroso: il tutto (che è soltanto un quasi, un quasi niente, un esempio) entra nel nulla. Il nulla non entra nel tutto perché più del tutto è totalmente sterminato il nulla (come una indicibile bellezza: perché mi pare femminile il nulla?). Così il nulla se lo gode, il tutto, all’infinito, e lo frantuma più di quanto già non sia, lo sbriciola e lo fiacca.