Per essere una «bambinata», come la definì Carlo Collodi, il suo stesso autore, la storia di Pinocchio ha avuto un successo planetario, un’infuenza inimmaginabile. Delle avventure del burattino, che Collodi in una prima versione addirittura voleva far morire impiccato dal Gatto e dalla Volpe (e questo spiega l’enigmatica frase della fata Turchina, che non apre la porta a Pinocchio perché, dice, «in questa casa sono tutti morti. Anche io sono morta» e poi si ritrova vivissima nel seguito del romanzo), si sono occupati più o meno tutti. Non basterà ricordare che Benedetto Croce ne tessé le lodi, che Leo Tolstoj ne scrisse una versione alternativa (avvenne anche in Italia, con spin-off definiti “Pinocchiate”), che critici, autori, scrittori e registi lo hanno ripreso, studiato, analizzato in ogni centimetro. Nessuno, si può dire, si è risparmiato un commento, una visione, una lettura.
Ne è nata una interpretazione biblica, una esoterica (dove le storie del burattino non sarebbero altro che un percorso iniziatico), una psicanalitica. Nel 1940 la Walt Disney ne ha tratto un cartone animato (anche questo di enorme successo), ma Pinocchio era già finito al cinema fin dagli albori del cinema stesso. Nel 1911, con una versione muta, nel 1936 con una versione animata, poi nel 1939 (ma era la versione tolstojana), e ci torna nel 1947, dove è interpretato da un attore bambino, nel 1954 e poi nel 1959 (come sceneggiato) e ancora e ancora, per un totale di circa 50 apparizioni.
Tutto questo per dire che riproporre Pinocchio nel 2019, con fedeltà al testo originale, proprio come ha fatto Matteo Garrone, richiede una certa dose di coraggio e incoscienza (non per niente tra le caratteristiche del burattino stesso, insieme alla propensione per le bugie e l’ingenuità). E, per lottare contro una tradizione così ingombrante, anche tantissimo studio, cura filologica, voglia di originalità. E il risultato? Funziona.
Per tante ragioni. Prima di tutto per il personaggio di Pinocchio stesso. Nella scelta tra “interprete adulto” o “interprete bambino”, Garrone va per la seconda strada, si affida a Federico Ielapi, che per mesi si è sottoposto a estenuanti ore di trucco, e che gli restituisce un personaggio impertinente, abbastanza superficiale, vigliacco il giusto. Per poi mutarsi nel bambino responsabile del finale «dolciastro» che tanto spiaceva a Collodi ma che si trasfigura con Garrone.
Poi per lo splendore dei colori, delle luci, dei dettagli di un mondo a metà tra la fiaba e la ricostruzione storica. Una luminosità studiata, con colorazioni sature ed espressive, per richiamare i capolavori dei contemporanei dell’opera, cioè i macchiaioli della Toscana della seconda metà dell’800 e che si prestano benissimo a raccontare quell’Italia della fame, nera e durissima, che altro non era che la quotidianità. Quando i bambini, dopo pochi anni di scuola, andavano «nei campi con il babbo», i furtarelli erano una realtà comune, le pene erano ingiuste, durissime, la crudeltà e la spietatezza erano normalità. Questo per chiudere la bocca a chi ancora credesse alla decrescita felice (ma ci sono davvero?).
E poi per l’interpretazione di Roberto Benigni, nel ruolo ben più adatto a lui di Geppetto (Garrone ha il merito di far dimenticare il terribile flop dell’ex comico toscano del 2002, tuttora con i suoi 45 milioni il film più costoso della storia del cinema italiano), o quella di Gigi Proietti, temibile Mangiafuoco, e del duo del Gatto e della Volpe, alias Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini (ormai libero dallo stigma pieraccioniano), che all’archetipo del truffatore aggiungono quella del miserabile affamato.
È in questa atmosfera, dominata sì dal favoloso – con animali che interagiscono con uomini, uomini che si trasformano in animali (i classici bambini trasformati in asini del Paese dei Balocchi), presenze sovrannaturali e vere e proprie magie – ma che comprende anche il realismo verista della vita dura della campagna e della costa, che si gioca tutta la vicenda, narrativa e poetica di Pinocchio. Alle bastonate seguono le lezioni morali. E alle buone intenzioni ancora gli errori, le ingenuità, le disavventure e i (rari) gesti di umanità. Tutto raccontato con ritmo, anche visivo, in una tensione che precipita nella scena del ritrovamento di Geppetto nel ventre del pesce-cane. Nel romanzo è qui che Pinocchio dimostra, anche nell’eloquio più complesso, una nuova maturità. Nel film questo stesso atteggiamento è tradotto nel piglio deciso, coraggioso e generoso, con cui prepara la fuga insieme al babbo. È l’ultimo snodo.
Ma a differenza di Collodi, che mal sopportava la metamorfosi finale, imposta quasi dal genere stesso del romanzo di formazione, Garrone rende la trasformazione di Pinocchio da burattino a bambino come un traguardo. È il termine di un percorso di consapevolezza che deriva, più che dalle lezioni del Grillo Parlante, dall’esperienza della cattiveria ma anche della bontà del genere umano.
Il moralismo antipatico del finale del libro diventa nel film, insomma, una lezione di attualità. Come Pinocchio, tutti cascano negli stessi errori, tanti si fidano dei vari Gatti e delle varie Volpi che popolano ancora questo mondo, molti scelgono di ignorare e di convincersi che sia un bene farlo: risultato, una stupidità collettiva. Esiste una soluzione, in assenza nel mondo reale di Fate Turchine e Grilli parlanti? Certo: lo studio, il lavoro e la responsabilità. Dirlo nel 1881 era uno scrupolo pedagogico. Mostrarlo nel 2019 sembra una raccomandazione rivoluzionaria.