Parlami di éliteSempre di meno, sempre più anziani, sempre più pagati. In Italia gli statali sono i veri privilegiati

Nonostante il blocco del turnover degli anni passati, gli stipendi dei lavoratori del settore pubblico sono in media del 20% più alti rispetto a quelli del privato. Una tendenza che rivela la debolezza strutturale della macchina pubblica italiana, e che andrebbe invertita completamente

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Da un paio d’anni le retribuzioni dei lavoratori italiani hanno ripreso a crescere con più vigore, ci dicono le statistiche. È una buona notizia, ma come al solito il diavolo si nasconde nei dettagli.

La realtà, a guardare meglio i dati, è che, come spesso accade, si tratta di una media fasulla: a trascinare questi aumenti sono quasi solo quelli intervenuti, soprattutto nel 2018, nel settore statale, con un +2,6% rispetto a quello precedente. Mentre nell’ambito del privato, complici la produttività e la crescita del PIL stagnanti, ci si è fermati a un ben più timido +1,1%.

Verrebbe spontaneo dire che, dopo circa 8 anni di blocco salariale, era ora che vi fosse un aumento degli stipendi per chi lavora nello Stato. Il problema è che, a guardare ancora meglio le statistiche, non sembra che questa tendenza vada in direzione di una diminuzione della disuguaglianza, come si potrebbe pensare. Piuttosto succede l’opposto. Perché la realtà è che, oggi più di ieri, il settore pubblico appare come un’aristocrazia composta da sempre meno membri, sempre meglio pagati, soprattutto rispetto al resto dei cittadini, dove la stragrande maggioranza, se lavora, lo fa nel settore privato.

Già nel 2015, quindi in pieno periodo di blocco, dopo circa 5 anni di stipendi pubblici fermi, l’Italia si piazzava dopo la Grecia (sic!) il Paese dell’Europa Occidentale in cui il salario lordo era più alto in proporzione al PIL pro capite. In parole povere, la classifica dei Paesi in cui gli statali erano trattati meglio.

Da allora sono passati quattro anni in cui il divario tra dipendenti pubblici e resto del Paese è solo cresciuto.

Grazie agli adeguamenti salariali del 2018, nel 2019 rispetto al 2015 gli statali hanno visto un aumento del 4,3% dei salari medi pro-capite. I privati, invece, soltanto del 3%.

Sostanzialmente, l’unica fase negli ultimi 20 anni in cui gli incrementi degli stipendi medi del settore pubblico sono stati decisamente inferiori a quelli nel settore privato è stato il periodo 2010-2015.

A causa di quegli anni di blocco, rispetto al 2000 i salari degli statali nel 2018 erano cresciuti leggermente meno rispetto agli altri, è vero, ma è altrettanto vero che il divario tra gli stipendi non si era certo azzerato, anzi, rimaneva altissimo, e in crescita. I dipendenti pubblici guadagnavano il 25,9% in più rispetto ai lavoratori del privato. Nel 2015, nel momento “peggiore” per gli statali, quando cominciava la ripresa ma persisteva il blocco, la differenza era comunque del 21,3%.

Forse non torneremo a un differenziale superiore al 30% come negli anni 2000, ma rispetto ad allora vi è un fatto nuovo. I lavoratori statali sono ancora meno, dunque sono ancora più “élite”, potremmo dire.

Se nel 2007 i dipendenti pubblici rappresentavano il 14,5% dei lavoratori in Italia, già nella parte bassa della classifica OCSE, nel 2017 sono scesi al 13,43%, dietro solo ad altri sei Paesi industrializzati nella classifica. Un numero che vale nonostante siamo sempre stati tra i Paesi con meno occupati al mondo.

Basti pensare che in Norvegia, Svezia, Danimarca i lavoratori statali sono intorno al 30%, più del doppio rispetto a noi. E però in questi stessi Paesi gli stipendi pubblici sono da sempre tra i più bassi se rapportati al PIL pro capite. ll lavoro statale, insomma, lassù è molto più di massa.

Siamo ancora più a fondo classifica se confrontiamo il numero dei dipendenti pubblici rispetto al resto della popolazione. Nel 2017 erano statali il 5,57% degli italiani, in diminuzione rispetto al 6% del 2010. Solo in Corea del Sud, Turchia e Giappone, tutti Paesi non europei, questa percentuale era inferiore.

Contrariamente a quanto si possa pensare, ci sono meno dipendenti pubblici nel nostro Paese, in proporzione agli abitanti, che in Germania, o in qualsiasi altro Paese UE. I lavoratori pubblici da noi sono un terzo che nei Paesi Scandinavi.

Ecco perchè si tratta di un’élite in Italia più che altrove: sia in termini di numeri sia per la differenza tra i salari degli statali rispetto a quelli del settore privato.

Tra l’altro, si tratta di un’elite di anziani. Infatti mediamente l’età dei dipendenti pubblici è molto maggiore di quella di chi lavora altrove.

Un chiarissimo esempio viene dal segmento della scuola, quello più popoloso nell’ambito pubblico: siamo il Paese con gli insegnanti più vecchi in assoluto, sia alle elementari che alle superiori. L’unico in cui, per entrambi i casi, oltre metà dei docenti ha più di 50 anni.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un aumento non scontato e piuttosto rilevante, considerando la stagnazione in cui viviamo, dell’occupazione nel settore privato. Questo è avvenuto a spese dei livelli salariali, perché i nuovi lavoratori sono stati assunti con stipendi più bassi, spesso in part-time. In un certo senso c’è stato una sorta di appiattimento salariale, specie fra i giovani, che tacitamente hanno accettato un nuovo sistema all’insegna del “guadagnare meno, lavorare tutti”.

L’esatto opposto di quanto accaduto nello Stato, dove si va avanti con il vecchio “pochi ma buoni”.

Non meraviglia nessuno il fatto che oggi, molto più di 10 o 20 anni fa, tra le massime aspirazioni di molti giovani ci sia il posto fisso statale.

Entrare nell’aristocrazia dei dipendenti pubblici però rimane difficile. Nonostante l’elite dell’elite, quella rappresentata da chi ha raggiunto circa i 60 anni facendo il pieno di contributi, abbia avuto l’ennesimo contentino, quota 100, nei prossimi anni la fine del blocco del turnover si limiterà a sostituire i pensionati con nuovi assunti.

Forse se nei decenni scorsi, quelli della “pacchia” per gli statali, si fosse seguito il modello nordico, più “democratico”, che in cambio di una moderazione salariale assicurava più posti pubblici, oggi quei tanti comparti in cui vi è una carenza di personale, nella sanità per esempio, potrebbero vedere qualche assunzione in più.

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