Ai tempi di Barack Obama, i Democratici erano il partito della Silicon Valley, ora sono il partito che vuole fermare la Silicon Valley prima che sia troppo tardi, ammesso che non sia già troppo tardi.
Tra i candidati alla presidenza, non c’è solo la senatrice Elizabeth Warren con il suo piano per spezzare i monopoli digitali, scardinare le posizioni dominanti delle piattaforme e liberare la concorrenza sull’innovazione, ma adesso anche il favorito Joe Biden che in un’intervista al New York Times ha detto che Mark Zuckerberg e Facebook, ma poi ha allargato il campo anche agli altri social network, costituiscono un pericolo per la democrazia e dovranno rispondere civilmente delle informazioni e soprattutto delle disinformazioni che veicolano, perché i social non sono più soltanto piattaforme tecnologiche ma strumenti di diffusione di notizie esattamente come i quotidiani, le riviste e le tv che, al contrario di Facebook, sono per legge responsabili delle loro azioni.
Anche la presidente della Camera Nancy Pelosi, ventiquattr’ore ore prima, ha detto che il comportamento di Facebook è «vergognoso» perché connivente con le manovre della Casa Bianca per evitare l’antitrust, mentre la nuova star della politica americana, la socialdemocratica Alexandria Ocasio Cortez, è un’altra delle personalità di rilievo dei Democratici che non fa sconti alle piattaforme Internet, pur vivendoci h24. Tutti contro i social, dunque: i riformatori, i moderati, i liberal e i socialisti del partito. Soltanto il sindaco di South Bend Pete Buttigieg è dichiaratamente amichevole con la Silicon Valley, oltre ovviamente a Donald Trump.
Qualche giorno fa, il New York Times ha dato notizia di un messaggio che un alto dirigente di Facebook ha inviato al suo gruppo di lavoro, il cui succo era: è vero che Facebook ha aiutato Trump a vincere le elezioni, ma per ragioni diverse da quelle legate alle fake news e all’ingerenza dei russi, piuttosto perché il team digitale di Trump è stato molto bravo a sfruttare le possibilità offerte dal microtargeting di Facebook. Il capo del team digitale di Trump 2016, Brad Parscale, per capirci, ora è il manager della campagna per la rielezione del presidente.
Biden e Pelosi sono particolarmente critici per ragioni certamente di principio ma anche perché sono stati vittime di due furiose campagne di fake news che Facebook inizialmente non ha voluto censurare, pur sapendo che si trattava di informazioni false, e che quando le ha fermate il danno ovviamente era stato già fatto.
La proposta di Biden in teoria appare sensata: così come gli editori sono responsabili delle informazioni che pubblicano, anche i nuovi editori social che a poco a poco stanno sostituendo le tradizionali piattaforme giornalistiche, dovranno rispondere delle cose che circolano sui propri mezzi e canali. In pratica, la proposta di Biden renderebbe impossibile pubblicare alcunché, perché le piattaforme social dovrebbero controllare tutto e poi decidere se mettere online o cancellare ogni singolo contenuto generato dagli utenti.
Detto questo, in linea di principio Biden ha ragione: le piattaforme tecnologiche non sono neutre e i social non possono fare soldi diffondendo falsità e manipolando il consenso degli elettori.
Magari sono più efficaci altri rimedi, come quelli legati all’antitrust cui è legata la senatrice Warren, oppure quelli di chi sostiene che i dati personali sono proprietà privata dei singoli utenti oppure l’idea di vietare il micro targeting politico o una combinazione di tutti e tre. Ogni grande innovazione tecnologica nasce, cresce e diventa grande grazie alla libertà di evolversi senza restrizioni e senza paracadute, ma a un certo punto arriva il momento in cui la comunità politica interviene per sopperire alle diseguaglianze e per tutelare i consumatori e la società. È successo con le ferrovie, con l’energia, con la radio, con la tv e con i servizi finanziari, prima o poi succederà anche con le società digitali. Nell’attesa, forza Biden.